Riunificare il mondo del lavoro è possibile?
In un saggio del 1990 sulla evoluzione storica del movimento operaio mondiale, Giovanni Arrighi ricostruiva la divisione del movimento operaio fra quella che egli chiamava la linea Bernstein e la linea Lenin come riflesso di una grande divisione fra le condizioni del mondo del lavoro dei paesi centrali e quelle dei paesi periferici. Le prime caratterizzate da un grande “potere sociale” del lavoro, riconosciuto anche dagli Stati e dai Governi, le seconde caratterizzate dalla “crescente miseria di massa”. Ma nello stesso saggio egli ricordava come negli ultimi 20 anni il quadro fosse cambiato profondamente in forza della svolta liberista, della globalizzazione e delle delocalizzazioni delle multinazionali, miranti a sfruttare i paesi a basso costo del lavoro e a mettere così sotto pressione il potere sociale dei lavoratori dei paesi centrali. Potere peraltro indebolito anche dalla femminilizzazione del mercato del lavoro, dai crescenti flussi immigratori e dai cambiamenti tecnologici.
“Il risultato è stato una profonda riconfigurazione dei soggetti che costituiscono l’esercito industriale attivo e quello di riserva…Un settore molto più ampio dell’esercito industriale attivo è ora localizzato nella periferia e nella semiperiferia dell’economia mondo, mentre l’esercito attivo del centro ospita al suo interno, ai livelli più bassi, un gran numero di membri femminili e immigrati e, ai livelli più alti ,intellettuali e scienziati formalmente proletarizzati. Questa riconfigurazione ha messo sotto pressione i lavoratori maschi dei paesi del centro occupati ai livelli medi e bassi, mettendoli nelle condizioni di dover accettare livelli più bassi di remunerazione in rapporto allo sforzo produttivo, pena la estromissione dall’esercito attivo.”
In sostanza non funziona più la polarizzazione fra potere sociale del lavoro in una parte del mondo e miseria crescente nell’altra. Per la parte del mondo che ci riguarda, da allora ad oggi, la miseria, la precarietà e le divisioni sono diventate di casa, con il conseguente indebolimento politico e sindacale del lavoro. Con altre parole e un diverso approccio teorico, in un saggio del 2013, Thomas Palley, un economista keynesiano strutturale, descrive la condizione del lavoro nei paesi avanzati con un grafico significativo che qui purtroppo non posso riprodurre. In sostanza egli immagina i lavoratori rinchiusi in un box sui cui quattro lati premono le politiche neoliberali, caratterizzate dall’abbandono dell’obiettivo della piena occupazione, dallo “Small Goverment”, dalla flessibilizzazione del mercato del lavoro e dalla globalizzazione. Per cambiare questa situazione e uscire dalla crisi globale che stiamo vivendo, la sua proposta è di puntare su un box alternativo, orientato dalle politiche del Keynesismo strutturale. In altri termini mettere dentro al box le Corporations e i mercati finanziari, esercitando sui quattro lati la pressione delle politiche di pieno impiego, di una politica pubblica socialdemocratica, della solidarietà nel mercato del lavoro e del governo della globalizzazione. Il governo della globalizzazione dovrebbe prevedere il controllo dei movimenti dei capitali, nuovi accordi internazionali sul modello di Breton Woods e standard sociali e ambientali nel regolamento del commercio internazionale. In relazione al tema che oggi discutiamo, segnalo che Palley include anche la proposta di un sistema globale di minimo salariale, adeguato naturalmente alla realtà dei singoli paesi, per migliorare in ogni paese la distribuzione del reddito e stabilire un più stretto rapporto fra salari e produttività. Questa politica avrebbe anche il fine di rilanciare la crescita dei vari paesi riorientandola sul traino della domanda interna e della crescita salariale, scoraggiando in tal modo le politiche mercantiliste di paesi come la Germania e la Cina, tutte basate sullo sviluppo delle esportazioni e del surplus delle partite correnti. E’ importante anche sottolineare che questo autore propone che il minimo salariale sia fissato non una tantum, salvo periodici adattamenti all’inflazione, come avviene nei paesi dove è ora applicato, bensì sia fissato in rapporto a una percentuale del salario mediano,( il livello del salario sotto il quale sta la metà dei lavoratori e sopra l’altra metà ) di modo che possa crescere in rapporto alle conquiste salariali del settore più forti del mondo del lavoro e in ultima istanza all’andamento generale della produttività.
Posso sbagliare, ma credo che se vogliamo prendere sul serio il tema drammatico delle divisioni del mondo del lavoro, il tema del salario minimo legale non possa essere più a lungo rimosso anche nel nostro dibattito nazionale. Teniamo presente che questo tema è fra quelli che stanno al centro proprio in questi giorni della trattativa fra CDU e SPD per la formazione del nuovo governo tedesco, trattativa nella quale la SPD propone la istituzione per legge di un salario minimo orario di 8,5 euro. Mi pare evidente che i socialdemocratici tedeschi stiano scontando da tempo nei loro risultati elettorali le responsabilità delle riforme Hartz del governo Schroeder e la perdita del consenso fra i 7 milioni di lavoratori intrappolati nei minijob, di cui 1,8 milioni guadagnano meno di 5 euro lordi all’ora. Per questo hanno deciso di fare del minimo salariale un tema strategico. E’ evidente altresì che il minimo salariale riguarda questi lavoratori, non certo i metalmeccanici della Wolkswagen. Trovo tuttavia molto significativo che di questo si parli anche in un recente documento del 2012 della IG Metall. Quel documento ( Change of course for european solidarity ) pone giustamente al centro per una nuova politica europea la lotta contro la deregolamentazione del mercato del lavoro e il dumping sociale, nonchè la necessità di un efficace coordinamento delle politiche salariali fra i sindacati europei. Sembra di leggere l’eco della proposta di uno standard retributivo europeo avanzata due o tre anni fa da Emiliano Brancaccio. Ma dicevo che trovo significativo che anche un forte sindacato come IG Metall, che certo conosce bene quanto il tema del minimo salariale per legge sia problematico per i sindacati, apra anche al minimo salariale” là dove è necessario farlo”. Peraltro, visto che ci avviciniamo alle elezioni europee, voglio ricordare che anche il programma fondamentale del Pse del giugno 2013, che pure sembra poco più di un brodo insipido di buoni sentimenti, apre al tema dei minimi salariali, affermando che “Minimi salariali dovrebbero essere introdotti in ogni Stato membro, tenendo conto le condizioni esistenti del mercato del lavoro e nel pieno rispetto del confronto sociale”.
So bene che ci sono preoccupazioni fondate all’interno dei sindacati anche nel nostro paese, circa il fatto che il salario minimo legale possa indebolire ulteriormente il potere contrattuale dei sindacati e possa costituire una calamita di attrazione verso il basso anche dei salari contrattuali. Una via per rispondere almeno in parte alla stessa esigenza di tutela delle fasce deboli del mercato del lavoro, potrebbe essere quella dell’estensione “erga omnes “dei contratti. Ma sicuramente lascerebbe scoperti settori e forme di lavoro non raggiungibili dai contratti stessi. Un ponte va dunque costruito verso quelle che Arrighi chiamava le aree della miseria dell’esercito del lavoro degli ex paesi centrali.
Insomma mi domando se per l’unificazione del mondo del lavoro non si possano affrontare anche temi scomodi e ambivalenti come questo. Il problema che andrebbe approfondito è come far funzionare uno strumento come questo anche per le figure spurie del lavoro dipendente come i Co.co.pro o le false partite Iva. Qualcosa è previsto nella recente riforma Fornero con riferimento ai minimi retributivi dei contratti di lavoro assimilabili. Occorre verificare che risultati e eventuali controindicazioni stia producendo questa normativa. Comunque il tema va affrontato sia sul piano sindacale sia su quello politico. Dovrebbe pur significare qualcosa la bassa percentuale di voti operai che va ai partiti della sinistra e del centro-sinistra. Più in generale ci si deve preoccupare della divisione crescente fra la parte del mondo del lavoro ancora dotata di un minimo potere sociale, anche se in progressiva riduzione, e la massa dei non garantiti. La campagna di destra contro i presunti privilegi dei garantiti e contro la presunta politica del “Tutto ai padri, niente ai figli “ha fatto la sua parte. Ma non meno responsabilità hanno le debolezze dei sindacati e soprattutto la penetrazione profonda della cultura liberista in buona parte della sinistra che ha finito per rimuovere il conflitto sociale dal suo orizzonte politico e ideale. Ora è venuto il momento di cercare di sanare la somma di fratture che dividono il mondo del lavoro. Senza impegnarsi su questo fronte la speranza di cambiare gli equilibri nel nostro paese affidata unicamente al gioco politico è destinata alla sconfitta.