Antonio Giolitti, la rivoluzione delle riforme
Il 12 febbraio del 1915 nasceva a Roma Antonio Giolitti. Nipote dello statista liberale Giovanni, si iscrisse giovanissimo al Partito comunista e durante la resistenza insieme a Giancarlo Pajetta fondò le brigate Garibaldi. Nel 1946 fu tra gli eletti alla Costituente nelle file del PCI, dando un contributo decisivo alla stesura della Costituzione. Nel 1952 insieme ad alcuni deputati comunisti, socialisti e indipendenti presentò un progetto di legge per “nazionalizzare i monopoli elettrici”.
Nel 1956, dopo la sanguinosa repressione in Ungheria, Antonio Giolitti firmò il documento degli intellettuali comunisti che davano l’addio al partito e si iscrisse al Partito socialista su posizioni autonomiste. Come esponente socialista fu ministro del Bilancio in tre governi del centrosinistra con Aldo Moro, Mariano Rumor ed Emilio Colombo. Nonostante il divorzio con il PCI non maturò mai sentimenti anti comunisti, ma anzi continuò a lavorare per l’unità della sinistra e per il superamento dei motivi della scissione del 1921. Nel 1985 abbandonò il partito socialista in polemica con il decisionismo di Craxi e nel 1992 si ritirò definitivamente dalla vita politica.
Politico dalla granitica coerenza e dalla vasta preparazione, a quasi cento anni dalla sua nascita il suo pensiero e il suo lavoro sono ancora molto attuali. Basti pensare che fu proprio Antonio Giolitti, in veste di esponete del PCI nell’Assemblea Costituente, ad opporsi ad alcune proposte molto simili all’attuale disegno di riforma del Senato illustrato da Matteo Renzi durante l’ultima direzione del PD.
Secondo alcuni esponenti liberali dell’Assemblea Costituente, infatti, il nuovo Senato repubblicano doveva essere composto “per un terzo dai componenti dell’assemblea regionale e per due terzi dai rappresentanti dei Comuni italiani” , o, più in generale, da “membri non eletti”.
Il 17 settembre Antonio Giolitti, a nome dell’intero gruppo comunista, presentò un emendamento (poi trasformato in ordine del giorno) che si opponeva in maniera netta a questa impostazione. Nel merito l’opposizione del PCI verteva su tre aspetti specifici: l’incongruenza di avere una Camera delle autonomie in assenza di un stato federale, la presenza di esponenti non eletti, e soprattutto il rispetto dell’armonia tra Prima e Seconda parte della Costituzione.
Secondo Antonio Giolitti infatti l’esigenza di avere una base regionalistica:
“si giustificherebbe solo ove le autonomie regionali avessero quel carattere federalistico che non è stato accolto nel progetto di Costituzione. […] Mentre se noi cerchiamo di inserire e conciliare questa base regionalistica con altri requisiti, ne vien fuori un miscuglio ibrido. Se si vogliono far valere solamente esigenze di carattere tecnico, allora si sia coerenti e si faccia di questa rappresentanza di interessi di categoria un corpo tecnico e non politico. Se ne faccia un Consiglio della Repubblica, per esempio, ma se ha da essere un corpo politico, deve soddisfare a esigenze politiche e soprattutto deve dare forma politica agli interessi che rappresenta […] Ma una rappresentanza di una categoria mi sembra non possa venire ad avere alto scopo che la difesa di determinati interessi, giacché tutti gli interessi si trovano già rappresentati attraverso i partiti”.
Per Antonio Giolitti non era possibile immaginare la Seconda Parte della Costituzione senza tener conto della Prima in quanto
“La Seconda Parte deve fondare un ordinamento della Repubblica tale da garantire la realizzazione del sistema di diritti e doveri sanciti nella Prima parte e tale da soddisfare ai due requisiti essenziali della democraticità e dell’efficienza delle istituzioni.”
Ma soprattutto la lezione di Antonio Giolitti è ancora attualissima quando ricorda che chiunque voglia cambiare la Costituzione lo deve fare
“Se nella nuova Costituzione vogliamo gettare le basi di una moderna repubblica democratica in Italia, dobbiamo anzitutto preoccuparci di rafforzare il parlamento e di innalzarne l’autorità e il prestigio, mettendo da parte gli interessi di partito, di classe e di ceto, perché sono in gioco gli interessi stessi e le sorti della democrazia parlamentare”.