Beni culturali o beni di consumo? Intervista al prof. Di Maio
Il prof. Amedeo Di Maio, docente e già preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Napoli “l’Orientale”, è uno tra i massimi studiosi in Italia di “Economia dei beni e delle attività culturali”. Disciplina “difficile”, che ha dovuto farsi strada a gomitate tra esperti, amatori e produttori di arte che inizialmente non hanno accettato di buon grado l’intromissione di “fredde formule” economiche e degli economisti nel “regno della cultura”.
Dati Istat ci informano che, negli ultimi 4 anni, aziende che operano nel settore dei beni culturali hanno resistito meglio alla crisi rispetto ad altre di settore diverso. Come mai?
(sorride) È un problema di definizione! Nel computo delle aziende impegnate nel “settore dei beni culturali”, l’Istat include una varietà di realtà disomogenee che vanno dai musei, pubblici o privati, alle case di produzione vinicola e sartoriale, dalle fondazioni che finanziano i grandi festival alla realtà del no-profit, dall’editoria alla produzione di formaggio caprino doc. Come è possibile immaginare di fare deduzioni economiche da questa premessa?
E cos’è un bene culturale allora?
Non è semplice. Si potrebbe sintetizzare dicendo che è il prodotto di una data comunità, in un dato periodo storico, che rimanda a un dato complesso di valori condivisi dalla comunità stessa. Molto spesso un bene culturale non nasce tale, ma assume questa accezione nel corso del tempo, grazie al valore che gli viene conferito perché è testimone di un passato o un bagaglio di valori comuni. Lo stesso vale per i centri storici o le collezioni museali. Tutto ciò non ha di per sé un valore culturale, se la comunità che lo vive non glielo riconosce.
Si spieghi meglio.
Negli ultimi anni, continuando a ripeterci che il fordismo fosse definitivamente superato, ci si è convinti che lo sviluppo tecnologico ed economico avesse ridotto il tempo medio che un uomo dedicava al lavoro, con una conseguente espansione del cosiddetto “tempo libero”. Si è creduto che questo nuovo tempo a disposizione andava riempito e così che iniziò il cosiddetto turismo culturale. Ma è un turismo fatto di non-luoghi, di visite veloci ai luoghi indicati dalle guide, di emozioni semplici e “a comando”. Sono d’accordo con Claire, l’ex direttore del Museo Picasso di Parigi, quando dice che l’opera d’arte non possiede alcuna proprietà miracolosa che lascia folgorato il visitatore. L’opera d’arte, ripeto, è sintesi della cultura che l’ ha prodotta.
Allora cosa dire dei musei, dei siti archeologici chiusi o dei centri storici decadenti?
Quando il bene culturale è stato considerato unicamente un bene “fruibile” dal visitatore, quando per decidere degli interventi relativi ai beni culturali sono state prese in considerazione solo le “esternalità positive” che questi potevano produrre, si è andato snaturando il bene stesso, gli si è sottratto valore, ma si è preteso che ne producesse.
Ma le cosiddette città d’arte, penso a Venezia, fanno del turismo culturale la loro prima fonte di reddito. Non sarebbe invece un bene investire in attività culturali, in rivalorizzazioni di edifici storici, nell’apertura di musei e mostre al fine non solo di aumentare l’offerta turistica ma anche il numero dei lavoratori impegnati nel settore e le entrate economiche derivanti?
Si può fare tutto questo quando una comunità è perfettamente in sintonia con il suo patrimonio, quando ne conosce la storia, i valori che porta con sé, quando lo vive insomma. Penso invece a Napoli, che è una delle città patrimonio dell’Unesco, eppure il centro storico va in rovina. C’è qualcosa che non quadra quando da indagini statistiche si scopre che i cittadini sono disposti a pagare di più per una casa in una zona “bene”, commerciale e considerata “centrale”, rispetto a quanto siano disposti a pagare per un appartamento nel centro stesso. Risulta chiaro che i napoletani, continuo con l’esempio, non considerino il centro storico qualcosa di valore, una sintesi della storia che li ha portati ad essere quelli che sono. Non ne percepiscono il valore di comunità.
Cosa dovrebbero fare i governanti allora?
Non so cosa dovrebbero fare, so solo che dovrebbero smetterla di essere miopi e ignoranti. In fondo sono l’espressione di una società che fagocita ma non sa quello che mangia.
Esistono, tra le amministrazioni comunali, esempi virtuosi di gestione dei beni culturali?
Penso a Barcellona, Siviglia o Torino. Queste città si sono rinnovate in città creative, hanno fatto della propria cultura, del proprio patrimonio e della propria capacità creativa, appunto, una leva sulla quale risollevarsi dopo un passato industriale e fordista.
La cultura ci salverà allora.
Se per cultura non intende i sight-seeing-bus, allora sì. Mi piace pensare che i luoghi della cultura dovrebbero essere luoghi del vivere sociale, dove un turista non debba sentirsi un visitatore di oggetti ma di popoli. Mi piace il modello olandese, degli happy hour al Van Gogh Museum, mi piacquero i Pink Floyd a Pompei. Se una città è vissuta culturalmente dai cittadini in primis, questi si preoccuperanno di averne manutenzione, ne saranno orgogliosi, la rivalorizzazione non sarà un’opera straordinaria ma sarà una diretta conseguenza del nuovo approccio dei cittadini al luogo in cui, anzi, che vivono.
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