Cesare Damiano: Il lavoro manca perché si è puntato troppo sul rigore e poco sullo sviluppo e l’equità sociale
Damiano, nelle recenti elezioni europee il Partito democratico ha avuto un risultato storico mai raggiunto prima da un partito di sinistra. In particolare, dal confronto con le politiche del 2013, emerge che conquista consensi soprattutto nel Nord Est, un’area da sempre difficile per la sinistra. Secondo lei, come si spiega questo risultato?
“I cittadini hanno sostanzialmente scelto tra Renzi e Grillo. Il secondo era un salto nel buio perché, al di là dell’aggressività verbale, non c’è nessuna proposta e quel poco che si capisce preoccupa. Il primo, Renzi, propone una rivoluzione delicata e indica degli obiettivi. In fondo, gli elettori hanno bisogno di un cambiamento rassicurante.”
Quanto inciderà il risultato del Pd sull’azione del governo?
“Aver superato il 40 per cento dei consensi è sicuramente un tonico, in particolare per Renzi che si sente in questo modo legittimato da un voto popolare e questo gli permette di continuare la sua marcia veloce verso le riforme”.
Le elezioni europee sono state accompagnate da un clima generale di sfiducia nei confronti dell’Ue che si è tradotto in un aumento generalizzato dell’astensione o nel voto massiccio a partiti populisti. Quali sono le responsabilità della classe politica europea, e soprattutto della sinistra, di fronte a questo fenomeno? E cosa fare?
Questo carica il Pd, che ha ottenuto il miglior risultato a livello continentale, di grandi responsabilità nel semestre italiano perché affida al nostro Paese la responsabilità di indicare un cambiamento nelle politiche europee, passando dalla logica del rigore a senso unico ad una che, senza abbandonare l’obiettivo dell’equilibrio dei conti, punti fortemente su sviluppo ed equità sociale.”
La politica del rigore è considerata da più parti uno dei principali fattori di scollamento dei cittadini europei dalle istituzioni. Persino la Merkel ha ultimamente affermato che l’unico antidoto alla crisi sono più crescita e lavoro. Ma quale può essere concretamente l’alternativa al rigore?
“Una scelta keynesiana, vale a dire la promozione di politiche anticicliche accompagnate da più investimenti per sostenere le esportazioni e la domanda interna, e diminuire il costo del lavoro a vantaggio delle risorse potenziando il potere d’acquisto delle famiglie sono due medicine che possono ridare smalto all’economia.”
Il decreto Lavoro del governo è la strada giusta per dare un vero segnale di cambiamento e la spinta necessaria per trascinare l’I“La classe politica non ha mai scommesso fino in fondo, tranne rare eccezioni, sull’Europa: abbiamo l’Europa della moneta, ma non quella politica. talia fuori dalla crisi profonda che sta attraversando?
“Il decreto ha perseguito la strada di una maggiore flessibilità, sia per quanto riguarda l’utilizzo dei contratti a termine che per quanto riguarda l’apprendistato. Come Pd abbiamo sostenuto, sia alla Camera che al Senato, una battaglia molto forte per fare in modo che ci fosse un equilibrio tra le ragioni del lavoro e quelle dell’impresa. Adesso si tratta, con la Delega sul lavoro, di attribuire al contratto di inserimento a tempo indeterminato un ruolo centrale per la qualità e la stabilità del lavoro dei giovani.”
Un argomento che spesso viene riproposto per giustificare la mancanza di lavoro è l’eccessiva protezione all’impiego. Eppure, l’Ocse afferma che il gap di protezione legislativa tra lavoratori a tempo determinato ed indeterminato non sembra così elevato da giustificare l’effettiva dualità del mercato del lavoro italiano. Cosa ne pensa?
“Il lavoro manca perché si è puntato troppo sul rigore e poco sullo sviluppo e l’equità sociale. Bisogna scommettere sugli investimenti, sulla diminuzione del cuneo fiscale che incide pesantemente sul costo del lavoro e sul potenziamento del potere d’acquisto delle famiglie, al fine di stimolare i consumi. Da qui si ricava l’occupazione. Il dualismo nel mercato del lavoro non si supera con la cancellazione dei diritti delle generazioni che sono attualmente al lavoro, ma garantendo quelle stesse tutele anche ai giovani che il lavoro lo incontrano adesso.”
Renzi non è andato al congresso della Cgil, primo sindacato italiano. Secondo lei è possibile governare senza l’apporto delle parti sociali?
“Matteo Renzi, a mio avviso, commette un errore nel considerare le parti sociali un impedimento alle riforme. Che le associazioni abbiano un istintivo riflesso di conservazione, è risaputo. Questo non giustifica però la loro esclusione dal confronto sui temi economici e sociali. La vecchia concertazione è andata sicuramente in soffitta, ma il dialogo sociale resta indispensabile per individuare le migliori soluzioni e per prevenire il conflitto.”
Quale ritiene sia il giusto equilibrio tra la decisione politica e l’ascolto delle parti sociali?
“Il governo ha sempre l’ultima parola e non deve necessariamente avere l’accordo di tutti. Importante è tentare di raggiungere un accordo, anche se non è obbligatorio. Il governo Berlusconi, con il ministro del Lavoro Sacconi, ha perseguito scientificamente l’esclusione della Cgil dalle intese. Non era il risultato di un confronto, ma una impostazione pregiudiziale.”
Tra le proposte avanzate dal segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, c’è quella di aprire una grande vertenza sulle pensioni: pensa che il governo dovrebbe ascoltarla?
“Sono contento che i sindacati abbiano raggiunto un’intesa unitaria sul tema delle pensioni e che la rivendicazione centrale sia l’introduzione di un criterio di flessibilità nel sistema previdenziale. Si tratta della nostra stessa rivendicazione, già tradotta in una proposta di legge. Sarebbe la soluzione strutturale al problema, ma il governo dice che non ci sono risorse sufficienti. Purtroppo, non è interessato neanche a risolvere la questione degli “esodati”. La sensibilità dimostrata dal ministro Poletti, da sola, non è sufficiente. Ci vuole un impegno collegiale e di Renzi. C’è il rischio, altrimenti, che esploda unaquestione previdenziale.”
Il governo Letta aveva annunciato misure per risolvere il problema “esodati”, anche Renzi ha annunciato più volte l’intenzione di intervenire, ma finora non c’è niente di concreto. Lei cosa propone?
“La situazione di questi lavoratori rimasti senza alcun reddito è socialmente inaccettabile. Quello che è più grave è che le cinque “salvaguardie”, per un totale di 162mila lavoratori, hanno a disposizione 11 miliardi di euro che corrono il rischio di non essere totalmente utilizzati. Trattandosi di un Fondo esclusivamente destinato agli “esodati”, chiediamo che le cifre non spese nella seconda salvaguardia vengano utilizzate per allargare la platea dei lavoratori che possono andare in pensione con le regole ante-Fornero. Infatti, dei 55mila lavoratori previsti, meno di 20mila hanno finora fatto richiesta per la pensione. Vorrei che anche il ministro Padoan fosse informato dello stato dell’arte e che si pronunciasse per poter agire di conseguenza.”
L’evasione fiscale costa all’Italia oltre 180 miliardi di euro all’anno. Una cifra che pone il nostro paese al primo posto in assoluto nell’Ue. Da anni tutti parlano di lotta all’evasione ma i risultati sono nulli o scarsi. E’ sufficiente puntare sulla repressione o ritiene che, senza un’ampia riforma fiscale, non se ne esce?
“Non c’è dubbio che una pressione fiscale troppo elevata possa far aumentare la tendenza all’evasione. Per il nostro Paese, però, si tratta di un vizio antico. Sarebbe importante se le risorse che si recuperano dalla lotta all’evasione andassero, in quota maggioritaria ed in termini di scambio, a diminuire le tasse pagate dai cittadini onesti. Una scelta del genere darebbe anche un significato di giustizia sociale a questa battaglia. Occorrerebbe anche sperimentare forme di detrazione fiscale per alcune prestazioni: penso alle spese sostenute per la ristrutturazione delle abitazioni. Gli incentivi fin qui hanno funzionato e andrebbero resi strutturali e con rimborsi fiscali inferiori ai dieci anni.”
Il Mezzogiorno resterà sempre una “questione” irrisolta o è possibile individuare misure per ridurre il gap con il resto del Paese rilanciando l’economia e l’occupazione del Sud?
“Per il rilancio del Mezzogiorno si sono battute molte strade, purtroppo senza molta fortuna. Ha funzionato il credito di imposta per l’assunzione dei soggetti più deboli nel mercato del lavoro, a partire dalle donne. Ma mostrano la corda gli incentivi triennali che puntano a localizzare al Sud le imprese: si è visto che ci sono troppi imprenditori “mordi e fuggi”, che fanno coincidere la durata della loro attività con quella degli incentivi, di solito triennali. Occorre, per l’Italia, riprendere il filo di un ragionamento sui settori strategici dell’economia, attivando una politica industriale selettiva che punti sulle eccellenze presenti anche nel Mezzogiorno. Bisogna porre fine al periodo della deindustrializzazione e trovare un diverso equilibrio tra manifattura, servizi e risorse per il turismo e la cultura. Prendiamo esempio da Barack Obama che punta sul re-shoring, cioè sul rimpatrio di attività manifatturiere precedentemente delocalizzate.”
Al Sud in particolare tantissimi giovani, laureati e non, sono costretti a lavorare con bassi salari e con diritti sempre più in discussione: un esempio viene dal mondo dei call center. Cosa dovrebbe fare il governo?
“Il settore dei call center attualmente occupa circa 80mila lavoratori. I problemi fondamentali sono due: le delocalizzazioni in territori extra Ue e gli appalti al massimo ribasso. Dopo le regole individuate attraverso la concertazione al tempo del governo Prodi, che avevano consentito la stabilizzazione di circa 25mila addetti, nel settore sono tornate a manifestarsi logiche di concorrenza sleale alimentate dal trasferimento di attività in Paesi al di fuori dell’Unione europea che hanno un bassissimo costo della manodopera e che non garantiscano adeguate tutele della privacy, come stabilito dalla legislazione nazionale. Il secondo problema è costituito dagli appalti, il cui massimo ribasso è al di sotto delle retribuzioni minime previste dai contratti di lavoro. In questo modo si crea lavoro nero. La commissione Lavoro della Camera ha avviato una indagine conoscitiva sul settore al fine di intervenire con regole che garantiscano una concorrenza leale e che non penalizzino, paradossalmente, le aziende che hanno scelto la strada della trasparenza retributiva e della stabilità.”
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