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2 Mag 2013

Chi si ricorda della globalizzazione?

Per tutti gli anni novanta la sola parola “globalizzazione” scatenava discussioni tra i pro e i contro, “No logo” vendeva milioni di copie e migliaia erano le manganellate (e non solo quelle!) sulla testa di chi manifestava il suo dissenso contro il villaggio globale delle multinazionali.

Poi c’è stato l’11 settembre 2011: il mondo occidentale si compattò nella lotta al terrorismo e, come per magia, la ricetta economica del liberismo sfrenato non è stata più oggetto nè di discussione nè, tanto meno, di detrazione.

Certo, gruppi di no global hanno continuato le loro lotte, ma assomigliavano sempre di più a fenomeni di folklore politico, mentre l’economia occidentale, dopo un breve periodo di stasi dovuto dallo schock post-traumatico, riprendeva a galoppare mietendo vittime indiscriminatamente.

Le fabbriche dislocate nel “sud del mondo” hanno continuato a produrre merci per il ricco 640_coca_cola_coke_india181841occidente, prodotti a basso costo, ma ad alto impatto sociale, culturale, ambientale, e quasi mai economico per le zone di produzione.

Alla globalizzazione della produzione di merci, intanto si andava associando quella dei costumi, del desiderio di prodotti (proprio quelli delle multinazionali sfruttatrici e affamatrici di popoli), del pensiero: l’unica ricetta economica ritenuta valida e infallibile era quella del liberismo, che mai negli ultimi anni è stato messo in discussione. Nemmeno quando si è dimostrato fallace il sistema capitalistico delle speculazioni finanziarie si è ritenuto opportuno rimettere in discussione la validità della ricetta.

Certo non parlo di alcune scuole economiche, che comunque hanno sempre tentato di sostenere e tenere in vita il dibattito, e nemmeno (per carità) dei sindacati, che spesso lottano per ottenere poche briciole (se non dei niente di fatto). Io parlo delle “persone comuni”, di noi italiani, ad esempio, che ci siamo visti “scippare” stabilimenti e fabbriche che venivano delocalizzati in zone del mondo (e della stessa Europa) dove il costo del lavoro è inferiore, dove la sicurezza per gli operai è quasi sempre nulla e dove quello che qui non basta a far campare una sola persona “lì sostiene almeno una famiglia”.

Io parlo anche della Politica, ecco, la politica dov’era? Dove sta ora?

Sul sito della Commissione Europea per gli affari economici e finanziari si legge che i detrattori della globalizzazione “temono” la perdita di posti di lavoro, ma che “le loro preoccupazioni sono state esacerbate dall’irrompere di Cina e India sulla scena del commercio mondiale. In particolare, il diffuso ricorso alle tecnologie dell’informazione rende sempre più sfumato il confine tra ciò che può o meno essere oggetto di scambio.”

La suddetta commissione “dimentica” le condizioni di vita in cui sono costretti a lavorare gli operosi cinesi, il livello di inquinamento (e quindi anche il degrado ambientale e umano) che in India si è raggiunto a causa della totale assenza di regole in campo industriale, l’alienazione morale e culturale che si sta diffondendo in tutto il mondo. Non sono problemi questi per la Commissione Europea?

La crisi economica sta mietendo vittime anche qui da noi, nel cosiddetto occidente sviluppato, ricco, grasso e democratico. Le ricette per uscirne vengono scritte da chi ha provocato tutto questo e certo non saranno loro a guarirci da questo cancro impazzito.

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L’anno scorso l’Unione Europea ha vinto il premio Nobel per la pace ed è stato motivo di orgoglio per tutti noi, ma l’Europa deve fare ancora di più, non può fermarsi nella propria missione finchè la “fraternità tra le nazioni” non sarà finalmente “globalizzata”. Dopo quanto è successo in Bangladesh il 24 aprile scorso (l’incendio scoppiato in una fabbrica di tessuti confezionati per la Disney e Wal-Mart ha provocato la morte di 112 persone), l’Unione Europea, che è tra i principali importatori del paese, è costretta a rivedere i propri criteri, non solo di “delocalizzazione”, ma anche di importazione di merci prodotte con criteri non accettabili, per la dignità del lavoro e dell’uomo.

Per invertire la rotta c’è troppo poco tempo, ma la speranza di un mondo migliore rimane ancora!

 

 

Scritto da

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