Dibattito sull’identità della sinistra
La Prima Pietra ospita il dibattito tra Ezio Mauro, Emanuele Macaluso e Rino Formica sull’identità della sinistra.
Il bene del paese
di Ezio Mauro da La Repubblica del 30/4/2013
Il Paese prima di tutto, avevamo detto qualche giorno fa. Oggi possiamo aggiungere: in particolare nei momenti di difficoltà. Ma dove sta il bene del Paese? Proviamo a ragionare, se è ancora possibile fare una discussione serena anche con chi non si riconosce nel pensiero dominante di questa primavera italiana 2013. O almeno col tentativo di usare l’emergenza politica per un cambio di stagione generale e definitivo, che trucchi i conti della piccola storia italiana di questi anni. Non voltando pagina, perché questo accade spesso. Ma riscrivendola. Tre punti mi sembrano non controversi.
1) – L’Italia è in difficoltà, la crisi dell’economia reale sta sopravanzando il rischio finanziario rivelandosi in tutta la sua gravità per le aziende, per i lavoratori, per la coesione sociale. 2) – Un governo è indispensabile, e chi ha detto il contrario è uno sprovveduto in linea con i populismi vari, che campano spacciando risposte semplici a problemi complessi. La Spagna proprio in questi giorni ha negoziato con Bruxelles due anni in più di tempo per il rientro del deficit, dimostrando che un esecutivo con conti e programmi alla mano può farsi ascoltare in Europa fino a bucare il muro dell’austerity dogmatica. 3) – Dopo aver sfiorato il default finanziario, il sistema ha rischiato il default istituzionale.
E questo perché le tre minoranze uscite dalle urne anche grazie ad una legge sciagurata non sono state capaci di formare una maggioranza di governo, e addirittura non sono riuscite a dare forma all’istituzione suprema, la presidenza della Repubblica. Da qui il corto-circuito che ha portato tre partiti a chiedere a Napolitano di ricandidarsi perché il parlamento era bloccato, accettando nel contempo la richiesta del capo dello Stato di impegnarsi a far nascere un governo, due mesi dopo il voto. Quindi un governo di necessità, una situazione estrema, una soluzione eccezionale fortemente contraddittoria, perché trova unite questa destra e questa sinistra, che si sono contrapposte duramente per vent’anni.
Com’è chiaro, non sono le responsabilità che devono spaventare. Ci sono parecchie cose che non solo si possono, ma si devono fare insieme tra forze politiche molto diverse (Scalfari ha ricordato Togliatti) e riguardano le regole del gioco e le sue varie forme, quindi la legge elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari, la correzione del bicameralismo perfetto, il taglio dei costi della politica: tutte misure che potrebbero ridare efficienza alla macchina democratica, ma soprattutto potrebbero avviare un recupero di fiducia nel rapporto in crisi tra partiti, istituzioni e cittadini. Anzi, le politiche di cambiamento e di novità (come la scelta da parte di Enrico Letta del ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge) sono l’unica strada per governare la contraddizione politica di questa maggioranza, provare a superarla nei fatti e guardare avanti, ricordando che la premiership viene dal Partito democratico e deve averne il segno.
Il punto in discussione è il tentativo ormai evidente, sistematico, insistito e molto diffuso di vendere un’alleanza di emergenza come uno stato d’animo del Paese, trasformando un governo di necessità in un’opportunità culturale per rimodellare la vicenda storica di questi anni. L’operazione cambia le carte in tavola, e assume un unico punto di vista – quello della destra, con le sue convenienze – come fondamento oggettivo della nuova fase. È evidente a tutti che Berlusconi, giunto terzo alle elezioni, arriva al tavolo delle grandi intese per scelta, con un’opinione pubblica che si sente premiata, una classe dirigente che appare miracolata. Dall’altra parte, il Pd – sconfitto politicamente nel momento in cui prevaleva numericamente – arriva alla condivisione di governo per obbligo, con un’opinione pubblica contraria e frastornata, un gruppo dirigente disorientato e diviso.
La sinistra vuole governare per fare poche riforme necessarie, affrontare la crisi del lavoro, rinegoziare la stretta dell’austerity con l’Europa e andare al voto. La destra vuole rilegittimarsi come forza di governo dopo il fallimento del ministero Berlusconi, vuole istituzionalizzare la carica “rivoluzionaria” che aveva in passato portandola dentro il sistema, vuole sacralizzare la figura del suo leader ripulendola dalle troppe macchie degli ultimi anni attraverso un ruolo da padre della Repubblica: senatore a vita, o presidente della convenzione per le riforme. Dunque il governo può durare finche servirà a questo scopo.
In sostanza è come se la destra dicesse al sistema: l’anomalia berlusconiana (composta dalle leggi ad personam e dal rifiuto di accettare il giudizio dei tribunali, dal conflitto di interessi, dallo strapotere economico e mediatico, da una cultura populista che intende il potere eletto dal popolo sovraordinato rispetto agli altri poteri, dunque insofferente per natura speciale ad ogni controllo) è troppo grande e troppo permanente per essere risolta.
Il sistema è stremato per lo scontro senza soluzione con la presenza fissa di questa anomalia. Dunque al sistema conviene costituzionalizzarla, introiettandola: ne uscirà in qualche misura sfigurato ma definitivamente pacificato, perché a quel punto tutto troverà una sua nuova deforme coerenza. Per questo, la grande coalizione è un’occasione irripetibile, guai a non sfruttarla ben al di là del governo.
Per arrivare fin qui, al vero scopo, è necessario lavorare sul “contesto”. Ingigantire l’aura di questo governo, parlando di “pacificazione”, di uscita dalla “guerra civile”. Bisogna cioè creare un senso comune accettato che ricrei le basi del confronto politico e rinneghi la lettura di questo ventennio, sia la lettura di destra che quella di sinistra (quella centrista o liberale non conta, perché è sempre al traino della cultura dominante in quel momento). E il senso comune è quello della grande omologazione nazionale, dove si scopre all’improvviso che destra e sinistra sono uguali, le vicende di questi ultimi anni non contano più per gli uni e per gli altri, non hanno lasciato segni nella storia, nella cultura istituzionale, nella piccola vicenda dei partiti, nel loro rapporto che pure è stato per lunghi tratti vivo, vitale e addirittura vivace con le opinioni pubbliche di base.
Ne discendono norme nuove di comportamento, inviti insistenti. Valga per tutti “il principio di realtà”, quindi non le culture di riferimento, gli interessi legittimi che si rappresentano, addirittura gli ideali diversi. No, conta solo la “realtà”, cioè il dato di oggi che prevale sul futuro e sulla storia italiana di questi anni. La politica si conformi. I giornali cambino addirittura tono, abbassando la voce, come se ci fosse un tono prefissato secondo le stagioni di governo, e i toni non fossero ogni volta la reazione a precise azioni dei protagonisti, dichiarazioni, proclami. Il risultato da ottenere è evidente: una grande amnistia culturale deve scendere sul ventennio, non lo si deve più ricordare per non giudicarlo, tutto è alle spalle, tutto si confonde, gli statisti non sono a targhe alterne ma in servizio permanente effettivo.
E qui, il nuovo senso comune ben coltivato porterà all’esito finale di tutta l’operazione: la fine del giudizio penale ancora in corso per definitiva autoconsunzione, in quanto il nuovo clima dominante di conciliazione governante prevarrà sul clima che pretendeva giustizia, o sosteneva per anni la pretesa di volere addirittura la legge uguale per tutti. Giuliano Ferrara lo ha detto lucidamente: la strada maestra per Berlusconi è spingere per la grande politica, “obliterando in questo modo ogni valore morale delle condanne che lo riguardano”. Vale a dire che il nuovo senso comune spodesterà quello precedente, vivo per anni, maggioritario o di minoranza secondo le fase, e tuttavia vivo. Alla fine si presenterà tutto questo come una vittoria della politica, mentre è un’altra cosa. L’abuso semantico e politico, dunque culturale, del concetto di governo di salute pubblica si estenderà prosaicamente alla salute privata di qualcuno. E quando questo clima sarà instaurato, potranno venire come al solito le norme ad personam, visto che a quel punto non sembreranno più un vulnus, ma un esito naturale e accettato.
Nella lettura a reti unificate che i giornali danno della grande intesa, si vedono tutti i segni di questa costruzione complessa che si richiama alla “realtà”, ma che configura un’iperrealtà politica di comodo, addirittura ideologica. È una lettura dalla quale ci discostiamo. Si possono – si devono – fare le cose che servono al Paese, ma salvando il vero principio di realtà, che consiste nel preservare le diverse “visioni sostantive” del Paese, le identità distinte di destra e sinistra, le letture degli ultimi vent’anni che sono state fatte in forme tutt’affatto difformi nei due campi, le due diverse idee dell’Italia. Qui c’è la base di un’onesta responsabilità condivisa, proprio perché qui c’è la coscienza dei limiti dell’emergenza, il rispetto delle pubbliche opinioni, la consapevolezza del fatto che il Paese ha bisogno di una maggioranza e di una minoranza, a cui si deve tornare appena i nodi principali sono stati sciolti. Qui, nelle differenze occidentali, nel rispetto onesto delle diversità, sta la base del futuro scontro elettorale, della ripartenza del Paese e del confronto democratico. Ecco perché tutto questo ci sta a cuore. Perché non tutto è emergenza, e nelle differenze culturali sta il bene del Paese.
Non si misura su Berlusconi la nostra identità
di Emanuele Macaluso da L’Unità del 1/5/2013
Il direttore di Repubblica, con il suo editoriale di ieri, si è lodevolmente impegnato a dare una linea al suo giornale dove, dopo i recenti avvenimenti politici, si erano letti articoli difficilmente conciliabili: basti citare i commenti di Eugenio Scalfari e Barbara spinelli, e non solo.
Ma la bravura di un giornalista come Ezio Mauro non può dribblare contraddizioni che sono nell’attuale realtà politica, che investono anche la storica linea del suo giornale e che vediamo riflesse nell’editoriale. Mauro nella prima parte del suo scritto afferma con assoluta nettezza che ”un governo è indispensabile, e chi ha detto il contrario è uno sprovveduto in linea con i populismi vari, che campano spacciando risposte semplici a problemi complessi”.
E al governo che si è costituito guidato da Enrico Letta, come ha detto Napolitano, non ci sono alternative. Mauro conferma e motiva efficacemente queste ragioni (per Sel di Vendola il tema è inesistente) definendolo “governo di necessità”. Fatte queste considerazione il direttore di Repubblica pone un problema che indubbiamente ha una rilevante valenza politico-culturale. “Il tentativo della destra di rilegittimarsi come forza di governo dopo il fallimento del ministero Berlusconi… Vuole sacralizzare la figura del suo leader ripulendola dalle troppe macchie degli ultimi anni attraverso un ruolo di padre della Repubblica. Senatore a vita, o presidente della Convenzione per le riforme. Dunque il governo può durare finché servirà a questo scopo”
La Destra, la Sinistra e le identità italiane da preservare
di Rino Formica
da La Repubblica
Caro Direttore, il Suo editoriale su la Repubblica del 30 aprile scorso ha il merito di riflettere con sguardo strategico sulla “fase” che il Paese sta costruendo. Diciamo “costruendo” perché se le fasi, quelle politiche e relative ai rapporti sociali, si costruiscono e non semplicemente si attraversano passivamente, nel senso del segno di consapevole volontà e capacità che i soggetti protagonisti sanno imprimervi, allora il Suo editoriale è certamente costruttivo e non solo di lucido commento. Lei con il suo quotidiano lavoro sta contribuendo a costruire una Sinistra, oggi sparsa in tanti frammenti e umori, da unificare non tanto rinunciando alla “pluralità” (che, sia chiaro, è sempre una “risorsa”) da riportare, nel suo nucleo centrale, ad un centro di gravità del quale sia chiara la forza d’attrazione politica e ideale. Per intanto si vorrebbe una Sinistra assai diversa da quella che ha “perso vincendo” e che è stata costretta a piegarsi a un “governo di necessità” come Lei definisce il governo Letta, e poi, con un supplemento di supplizio, ha dovuto piegarsi allo stato di eccezione, anzi a una “soluzione eccezionale”, per usare sempre le Sue parole.
Ma veniamo al punto: come definire l’attuale fase, in che modo va configurandosi? La Sua tesi è che la categoria dell’ “eccezione” non è sufficiente a convogliare e denominare l’insieme dei flussi che agitano il Paese. Anzi, il sostrato oggettivo dell’ “eccezione” (il convergere delle crisi in un’unica energia dirompente) rischia di occultare il vero disegno soggettivo che la muove. Lei scrive: “Il punto in discussione è il tentativo ormai evidente, sistematico, insistito e molto diffuso di vendere un’alleanza di emergenza come uno stato d’animo del Paese, trasformando un governo di necessità in un’opportunità culturale per rimodellare la vicenda storica di questi anni. L’operazione cambia le carte in tavola, e assume un unico punto di vista –quello della destra, con le sue convenienze- come fondamento oggettivo della nuova fase”.
Siamo, dunque, seguendo il Suo ragionamento, dentro una svolta, dentro un vero cambio di fase, anzi dentro un cambio di statuto democratico del Paese. Un Paese che si è sempre riconosciuto, a partire dalla fase costituente, in un amico-nemico della democrazia, in una Destra (a volte di testimonianza, a volte coincidente con il moderatismo e conservatorismo nazionale, altre ancora incardinata nel grande corpo della Democrazia cristiana) e in una Sinistra che è stata grande e vincente solo quando ha sviluppato la propria “diversità”, rifiutato le ambigue “socialdemocratizzazioni” e soprattutto quando ha alimentato l’antifascismo, inteso non come tavola generale di valori democratici da immettere nella cultura politica di un Paese povero di storia nazionale e di esperienze di democrazia, ma come “sintassi” della vita democratica e istituzionale del Paese, come legge bronzea della politica.
La Sinistra che si piega a questo nuovo “principio di realtà”, vale a dire alla realtà dalla quale muove un bisogno di pacificazione, di unificazione, di sentimento comune, di collaborazione Sinistra-Destra è, per Lei, una Sinistra destinata a cambiare, cioè a perdere.
Ma Lei dimentica che il quarantacinquennio primo-repubblicano è stato dominato da un principio di realtà (la democrazia bloccata) il quale ha dato luogo ad un altro principio, al principio di verità (la Costituzione “più bella del mondo”), non meno dannoso di quello da Lei esecrato. A difesa di quella realtà si organizzarono forze così potenti da sconfiggere il disegno moroteo di allargamento della democrazia, che confidava e tenacemente lavorava per una occidentalizzazione del PCI e un superamento del centrismo, oramai minoritario nella rappresentazione della complessità nazionale. Si unirono forze così aggressive e plurime da sconfiggere un impreciso ma determinato disegno socialista craxiano di “riequilibrio” a Sinistra.
C’è il sospetto, in conclusione, che quelle stesse forze, rinnovate nella tattica ma non nella strategia, siano oggi in azione per bloccare lo sgangherato e contraddittorio disegno berlusconiano di ricostruzione di una Destra di governo (vera “rupture” nella storia unitaria della repubblica), disegno da reimpostare per linearità e coerenza nel quadro di un centrodestra di tipo europeo se la Destra sarà capace di autoriforma, ma non colpire perché contrario a quel “principio di realtà” che si vorrebbe contrapposto al nuovo.
Quello che invece non è chiaro seguendo il filo logico del Suo ragionare è su quale prospettiva storico-politica oggi si colloca la Sinistra. Dico prospettiva storico-politica per intendere i caratteri fondamentali irrinunciabili di una forza politica, senza i quali le ragioni di realtà e di necessità che possono portare alle collaborazioni tra diversi, inevitabilmente finiscono in inciuci. E’ del tutto evidente che una Sinistra, come quella in corso in Italia, che ha pervicacemente rifiutato la socialdemocratizzazione, la promozione di processi revisionistici al proprio interno, la piena occidentalizzazione del sistema politico è costretta a marcare la propria identità sul piano “morale”, un piano –come sappiamo- assai sdrucciolevole che, se non controllato, può degenerare in razzismo ideologico se non antropologico. Su questo punto converrà ritornare. Riflettere cioè sulla sostituzione (o confusione) della “questione politica” con la questione morale, del problema del carattere storico-politico del ruolo della Sinistra in Italia con la superiorità morale di una parte del Paese.
“Nelle differenze culturali sta il bene del Paese”. Con questo concetto Lei chiude il Suo editoriale. Quando però le differenze culturali fissano gli antagonismi di un Paese e le “differenze sostantive” non riescono a sciogliersi in una dialettica di alternativa politica, che può anche prevedere passaggi normali di collaborazione tra diversi, quelle “differenze” diventano la maschera ideologica per bloccare il più difficile e tormentato tentativo di unificazione politica e civile del Paese. E non può essere un caso (non lo è certamente per noi) che la via nazionale alla normalizzazione democratica sia oggi tentata da una figura storica della tradizione del comunismo italiano, qual è Giorgio Napolitano, e non sarà certamente per caso che da questo punto di svolta una nuova Sinistra dovrà ripartire.