Fare Rete!
Intervento di Dino Falconio al meeting a Palazzo Serra di Cassano con Gianni Vattimo, Raffaele Cantone, Alfonso Ruffo e altri sul tema “Noi (r)esistiamo: i sto cca!”
“Il titolo di questa manifestazione “I sto cca” mi ha convinto dall’inizio, perché mi ci rispecchio in pieno. Il mio percorso di studi e di lavoro si può dire nato e cresciuto nella mia città. E per mia scelta. Certo ho avuto la fortuna di dedicarmi a una disciplina dove la scuola napoletana è sempre stata leader, poiché nel diritto e nel notariato in particolare l’Università Federico II e la lezione del mitico presidente Capozzi hanno richiamato almeno fino a quindici anni fa allievi da tutto il resto d’Italia. Ma proprio una volta coronato il successo del concorso notarile mi ritrovai in controtendenza con la cosiddetta fuga dei cervelli, in quanto, pur risultando nel vertice della graduatoria, non scelsi le sedi ambite e ricche del nord, che facevano gola alla maggioranza dei miei colleghi, ma optai per un paesello della provincia di Caserta del quale mi era ignota l’esistenza e che avevo difficoltà persino a individuare sulla mappa geografica: Macerata Campania.
Dopo tre anni, con un trasferimento record per il punteggio maturato in classifica anche grazie all’insegnamento universitario che praticavo fra Federico II e Suor Orsola, rientrai a Napoli dove da quasi un decennio faccio il notaio senza mantello a ruota, ma a bordo di uno scooter azzurro e con l’ipad in mano. Intanto mi sono sposato e ho avuto tre figli, senza mai smettere di promuovere cocciutamente l’idea dei diritti di cittadinanza attiva. Se dovessi seguire le ragioni della mente, suggerirei a un mio coetaneo dell’epoca di obbedire all’eduardiano “Fujtavenne a Napule”. Ma poiché ho sempre ritenuto che fosse più bello far prevalere le ragioni del cuore, alla domanda se, avendo la possibilità irreale di tornare indietro nel tempo, preferissi ancora restare a Napoli oppure emigrare altrove, risponderei, sebbene con le lacrime agli occhi: “I sto cca!”.
E oggi mi tocca dirvi il perché del voler rimanere e il perché di quelle lacrime. Perché questa terra meravigliosa e sfregiata mi ha dato molto di più quanto io abbia dato a lei: sarebbe una vigliaccheria pensare a salvare il proprio misero particolare e non restituire almeno in termini di tentativo a questa città quella ricchezza morale che mi ha regalato. Peraltro se tutti coloro che si riconoscono in valori universali di cultura, civiltà, legalità, democrazia e meritocrazia abbandonassero il campo gettando la spugna, ci ritroveremmo quel campo popolato solo dai peggiori se non addirittura dai pessimi, pronti a farlo diventare uno scempio.
È un richiamo morale che mi arde dentro, imprimendomi di non lasciare per godere di comode alternative o comunque di situazioni dove non necessita ogni giorno una lotta contro il Potere ufficiale e quello occulto, contro chi non garantisce i tuoi diritti e chi impunemente li calpesta nelle piccole e nelle grandi vicende.Ma mentre quindici anni fa’, quando mi si presentò l’opportunità di andare a mettere radici fuori e lontano dalla mia casa, assunsi la decisione con entusiasmo e con il cuore gonfio di speranza che Napoli potesse risorgere, dal momento che si respirava una straordinaria aria di rinascimento (dopo poco offesa in maniera indecente) oggi invece ripeterei quella scelta ma, come dicevo, con il petto colmo di rabbia fino a lacrimare.
Il perché di queste lacrime è il tradimento che abbiamo subito dalla classe dirigente che senza distinzioni di colori politici ha preso letteralmente per i fondelli noi tutti e nulla sa fare di più che continuare a prenderci in giro. A un giovane mio coetaneo dell’epoca direi di gridare anche lui con me ed io con lui: “I sto cca” per ingaggiare un combattimento senza quartiere nel fare rete fra cervelli, persone per bene, energie pulite che, disilluse dalle lusinghe dei vari incantatori di serpenti, si impegnino a pretendere la ricostruzione di questa città e del suo tessuto produttivo, partendo dal più grande patrimonio che essa possiede e cioè dalla cultura, dall’arte e dal paesaggio.
Dobbiamo far valere una voce unanime, alta e forte che reclami di mettere al centro delle politiche dello sviluppo questi tre tesori, ma non in chiave mortuaria e museale fine a se stessa, nella desolazione senza funzioni del fallito Lungomare Liberato o della sempre vuota piazza del Plebiscito.
Nella economia globale l’Italia e Napoli non saranno mai competitive su prodotti che potranno fabbricare a sempre più basso costo i cinesi e gli indiani. Ma questo Paese meraviglioso e questa bellissima e dannata città di Napoli hanno una materia prima originale e non duplicabile da nessuno, capace di creare prodotti non succedanei e dunque non perdenti rispetto alle industrie delle nuove locomotive economiche mondiali del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina).
E queste risorse uniche di arte, cultura e paesaggio non significano soltanto una città di camerieri che servono ai tavolini di bar e ristoranti, non significano soltanto il nebuloso mito del turismo, non significano soltanto bastimenti che attraccano (anziché partire) al porto per volare a Pompei o a Capri saltando a piè pari la Capitale, magari troppo pericolosa per la presenza di macro e micro criminalità.
Arte, cultura e paesaggio significano il volano di un nuovo sviluppo che è fatto di servizi, infrastrutture, logistica, ricettività, filiera agro-alimentare, riqualificazione del territorio, nuove tecnologie, comunicazione, eventi e cioè lavoro sotto casa per tutti i napoletani ingegnosi e volenterosi pronti a ribaltare la leggenda degli sfaticati e nullafacenti. Perché quegli stessi napoletani che qui vengono additati come inefficienti e parassiti, nelle aziende e nelle istituzioni dove lavorano fuori Napoli sono considerati i più capaci ed operosi?
Perché non possiamo avere la prerogativa di immaginare una Pompei multimediale con il ponte ologrammi di Star Treck, perché non possiamo immaginare uno spettacolo stabile da offrire ai visitatori basato sulle nostre musiche e danze famose nel mondo, perché i monumenti davvero unici che abbiamo devono morire di incuria e non essere moderne location di vita, perché non possiamo creare in aree dismesse le città dello sport, perché dobbiamo lasciare le periferie nelle mani della camorra e non riabilitarle con i laboratori culturali dell’innovazione e della ricerca?
A chi vorrà continuare a dire “I sto cca” dico con passione: fallo! Fallo assolutamente! E allora resta, resta cù me, ah resta, Resta cú me! Ma non solo per fare il bravo avvocatino, il bravo giornalistino, il bravo professorino, il bravo architettino, il bravo medichino, ma per lottare insieme nell’intento di rivoluzionare la mentalità del disimpegno pubblico e, per una volta nella storia di questa città, di riscattarsi dal vizio psicologico d’essere dominata, divenendo protagonisti del cambiamento che può avere un solo inizio:
Fare Rete!