Nasce Fare Rete: La bilancia fra efficienza e garanzia
Nasce Fare Rete: una associazione di trenta-quarantenni professionisti, docenti universitari e imprenditori napoletani con la finalità di produrre programmi e studi per una azione politica metropolitana e per la partecipazione qualificata al dibattito nazionale sulle riforme.
È il tempo di passare dalla contemplazione giustamente critica della realtà a un lavoro diretto sul territorio e sui problemi. Se per spiegare questo impegno volessimo seguire una suggestione narrativa, potremmo dire che proviamo a raccogliere le energie giovani e sane di una generazione tradita con l’ambizione di ritrovare l’armonia perduta dalla decapitazione della borghesia partenopea. Invochiamo un’alleanza fra le forze produttive e intellettuali per progettare un futuro di sviluppo economico e rinascita culturale da consegnare responsabilmente ai nostri figli, che vogliamo crescano e rimangano vicini alle nostre radici.
Siamo partiti con il seminario dal titolo “Giustizia, un’emergenza dimenticata” perché da Napoli, una delle capitali del diritto, possiamo toccare simultaneamente le questioni concrete di chi vive ed opera nel campo giuridico ed esprimere concetti e osservazioni da sottoporre all’attenzione nazionale e in particolare di una grande forza politica come il Partito Democratico, che interviene in questo convegno con il deputato Danilo Leva, componente della Commissione Giustizia della Camera e già responsabile del Forum Giustizia nella Segreteria Pd retta da Guglielmo Epifani.
Fino a qualche mese fa’ pareva che la questione fosse pregiudiziale addirittura alla formazione del governo, non se ne poteva prescindere.
Da quando é venuto meno il “Fattore B”, cioè il blocco psicologico e politico ad affrontare i veri temi della macchina giudiziaria per non impattare nelle vicende personali del leader carismatico del Centrodestra, qualcuno invece dice paradossalmente che c’é una “desaparacida” nella discussione italiana.
Eppure i guai stanno tutti lì. Nessuno vi ha posto rimedio: in Italia i processi civili sono i più lenti d’Europa, se si eccettua Malta; la loro durata media nel 2012 è di 600 giorni; erano 500 nel 2010 (il triplo rispetto alla Germania, oltre il doppio rispetto a Francia e Spagna). In compenso ne aumentano i costi (6% in più). Siamo al 160º posto (su 185 Paesi) per la tutela giurisdizionale dei contratti secondo la classifica della Banca Mondiale che stima pendenti nel nostro Paese 5,4 milioni di processi, gran parte dei quali oggetto di lontani rinvii. In questo panorama non può che provocare la pelle d’oca l’affermazione di un ex Ministro Guardasigilli che vantava la diminuzione del carico giudiziale per effetto dell’aumento dei contributi unificati. Una forza di sinistra socialista non può che gridare allo scandalo dinanzi a simili frasi, che ributtano indietro di secoli l’orologio della storia, ai tempi del diritto per censo, nel dispregio di ogni ideale di uguaglianza.
Se poi si guarda alla materia fallimentare si tocca con mano lo scandalo delle riforme inefficienti che, secondo una prassi italiana ormai consolidata, si risolvono in proclamazioni di principi che restano lettera morta, se non addirittura oggetto di ulteriori continui ritocchi dando luogo al fenomeno delle riforme delle riforme, le quali finiscono per essere rivisitate prima ancora che sperimentate e attuate. Cosicché le nuove procedure concorsuali non hanno fatto altro che minare la trasparenza del mercato e la certezza dei crediti mediante il ricorso smodato al concordato in bianco con deprecabili tecniche dilatorie a danno della fiducia e trasparenza dei rapporti giuridici. Felicemente si é parlato dei “furbetti del concordato”. Altri scellerati interventi legislativi sull’onda dell’inseguimento della pancia piuttosto che della testa si susseguono nel diritto commerciale consegnando mostri come le società a responsabilità limitata semplificate con capitale di un euro che opportunamente sono state definite “società da tre soldi” ormai veicolo della criminalità organizzata per le più ricorrenti operazioni di riciclaggio (come rivelato pochi giorni fa’ dai vertici della Direzione Nazionale Antimafia e della Direzione Investigativa Antimafia).
Purtroppo nel clima di “Pan-Penalismo” imperante di tutto questo magma di controversie civili non si parla con il dovuto approfondimento, mentre, supponendo per difetto che le cause civili implichino almeno due parti in lite, quei 5,4 milioni di processi significano quasi 11 milioni di cittadini in tribunale, cioè il 25% della popolazione attiva.
La maggior presa del processo penale sull’opinione pubblica d’altronde non è una novità. L’allarme sociale che i delitti provocano fra la gente, la stessa natura pubblicistica del diritto penale quale diaframma – per dirla con Giuliano Amato – fra l’Autorità dello Stato e l’azione dell’individuo, spingono da sempre a una diffusa attenzione verso i meccanismi di repressione dei fenomeni criminali. Il seguito di notizie di cronaca nera e il successo di format televisivi come “Un giorno in pretura” sono solo la versione moderna dell’antica abitudine ottocentesca di pagare il biglietto per assistere alle udienze dei dibattimenti penali.
D’altra parte é in questo settore che si tocca di più con mano il conflitto insito nel processo fra due contrapposte esigenze: garanzie ed efficienza, le quali rispettivamente altro non sono che le proiezioni dei due poli di libertà e autorità fra i quali gioca lo Stato. Dove avanza la barra dell’autorità recede quella della libertà e viceversa. Ma occorre recuperare al vocabolario della Sinistra i valori del garantismo perché da sempre l’uomo sta al centro della costruzione socialista come di quella cattolico-personalista. E allora non si può non rabbrividire quando si senta dire – come è accaduto non meno di una settimana fa’ al sottoscritto – per bocca di un alto magistrato che se fu vero il suicidio di Gabriele Cagliari all’epoca di Tangentopoli, fu pur vero che dopo qualche settimana la vedova del manager consegnó allo Stato miliardi di fondi neri in vecchie lire.
Probabilmente fu un’operazione efficiente, ma a quale prezzo? Il prezzo di una vita umana può barattarsi per la restituzione di un maltolto sebbene miliardario? Abbiamo vissuto, in verità, a fronte di un sia pur lodevole successo contro le criminalità, una progressiva involuzione del sistema delle garanzie per effetto di tre stagioni che si sono succedute e concatenate: lotta al terrorismo, contrasto alle organizzazioni di stampo mafioso, Tangentopoli.
In questo contesto il giudice si é caricato di una legittimazione politica laddove avrebbe dovuto essere portatore semplicemente di legittimità giuridica. E si é giunti alla teorizzazione della funzione suppletiva della magistratura nei confronti di altri poteri dello Stato, fino a parlare in maniera disinvolta, con buona pace della divisione dei poteri di Montesquieu, di Governo dei Giudici.
Un fenomeno emulativo dal penale al diritto amministrativo e alla giustizia contabile peraltro sta dilagando in questi ultimi mesi, in cui dopo decenni di sonno fisico e metafisico stiamo assistendo al risveglio iper cinetico delle Corti dei Conti, che brandendo il grimaldello del sequestro stanno azzerando nel mondo civile-amministrativo il sistema delle garanzie patrimoniali, sottoponendo gli indagati a restrizioni sovente ingiustificate.
Si sta ripetendo lo spettacolo che abbiamo già visto per anni nel processo penale: l’anticipazione al momento cautelare di provvedimenti afflittivi che non vengono validati nel prosieguo del procedimento, ma che intanto espongono il destinatario alla gogna mediatica che consegue all’azione della pubblica accusa. Prime pagine dei giornali e titoli di testa dei Tg all’atto delle misure cautelari e trafiletti in ultima pagina che recano la notizia di proscioglimento di quegli stessi soggetti.
Per la verità oggi tutto questo nel processo penale si é fortemente compresso rispetto all’espansione registrata in Tangentopoli. Siamo in tempo per intervenire nella giustizia amministrativa (come accadde con la riforma del Giusto Processo che arginò gli eccessi di quella stagione) con la strada indicata dal Premier Matteo Renzi nel suo ormai famoso discorso di insediamento in Senato: l’unicità della giurisdizione e la riconduzione in un unico ordine giudiziario dei giudici amministrativi e contabili, superando l’anomalia dei TAR sull’onda di una distinzione sempre più affievolita fra le categorie dogmatiche dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.
Gli interventi legislativi di questi anni sono stati anche numerosi, ma non hanno risolto la crisi di efficienza della Giustizia. La già ricordata riforma del giusto processo, la revisione dell’ordinamento giudiziario del Governo Prodi, la legge anticorruzione della Severino, l’istituzione del Tribunale delle Imprese, le recenti misure svuota-carceri, non sono state sufficienti a rilanciare davvero la cultura delle garanzie.
Occorre ripartire da questa battaglia che é prima di tutto culturale: uscire dalla logica in cui il processo é vissuto di per sé come pena, il processo deve tornare ad essere nella percezione comune il luogo dell’accertamento dei fatti, mediante il quale riviva la presunzione di non colpevolezza, durante il quale l’indagato abbia diritto di difendersi, come si dice, a piede libero. In questo senso, sembra che stiano marciando i recenti lavori parlamentari in tema di misure cautelari. Ma non basta, serve con coraggio affrontare il tema della decorporativizzazione della giustizia disciplinare in seno alla magistratura, sottoporre a dura verifica la tenuta del dogma dell’appellabilitá di tutti i giudizi di primo grado, compiere scelte di eguaglianza sostanziale in tema di prescrizione per evitare il doppio binario favorevole ai ricchi e svantaggioso per i meno abbienti, inasprire la repressione delle liti temerarie e abbattere i tempi biblici dell’attuale durata dei processi.
Solo in questo vasto programma quella che gli anglo-sassoni chiamano “giustiziabilitá dei diritti” potrá scalare le attuali posizioni di coda nelle classifiche mondiali e far tornare competitivo l’investimento estero e interno nel Belpaese.