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Formica scrive a Macaluso: Comunisti e Riformisti

Caro Emanuele,

ho letto il tuo libro e dico subito che vi ho trovato conferma del fatto che passione e rigore possono essere tenuti assieme solo a partire da una grande esperienza politica, la tua, vissuta, tra l’altro, in un rapporto diretto con Togliatti, appunto con passione militante unita a rigore e autonomia. Al termine della lettura ho pensato che il libro avrebbe potuto avere un altro titolo forse paradossale: Togliatti, un uomo solo. Replicando quello del libro della figlia di Alcide De Gasperi che ha raccontato la solitudine politica del padre. Togliatti e De Gasperi sono state figure centrali dell’Italia repubblicana. La mia non vuole essere una battuta ma vuole centrare il nocciolo della tua riflessione sul “partito nuovo” e sulla figura di Togliatti: la svolta di Salerno è stata una grande intuizione, una formidabile costruzione politico-ideale, una sintesi originale di politica estera e politica interna (l’Europa dopo Yalta) che, nonostante il prestigio internazionale e la forza politica del suo ideatore, è rimasta nei fatti minoritaria nel PCI. Una linea certamente condivisa, tu sostieni, ma con altrettanta certezza non compresa nella sua tessitura strategica dalla maggioranza del popolo e del gruppo dirigente comunista. Fatto sta che le due “solitudini” si sono dispiegate entro scenari diversi e soprattutto con esiti diversi. In fondo Togliatti, nella vicenda del post-fascismo nazionale, è risultato un personaggio vincente mentre De Gasperi ha visto, da perdente, l’Italia risorgere e crescere nella democrazia. Ma questa è un’altra storia.

Il Togliatti da te raccontato (con il supporto di una corposa e selezionata documentazione) risulta un personaggio “incompreso”. Infatti la via italiana al socialismo fu osteggiata dall’Urss e dal suo agente fiduciario ma di grande spessore politico e intellettuale in Italia, Secchia. Fu interpretata “autonomamente” da Amendola e “creativamente” da Berlinguer. La “sinistra comunista” (come tu la chiami passando sopra le infinite differenze e sottigliezze politiche e ideologiche che l’hanno contraddistinta, dal gramscismo movimentista di Ingrao all’anti-gramscismo operaista di Mario Tronti) vi si oppose fieramente e apertamente, vedendone non tanto i limiti “democraticistici” ma il risultato del deliberato decentramento della “questione operaia” (e del partito operaio) dall’orizzonte della via italiana al socialismo. L’unico che ne comprese la ratio, la difese (dal “secondo” Berlinguer e dal “secondo” Craxi) e ne sviluppò il pensiero a ridosso delle profonde trasformazioni del Paese e dello scenario mondiale, ne revisionò la “meccanica” troppo condizionata sia dai fattori esterni, sia dalla crisi nazionale del politico e delle istituzioni fu Napolitano, un altro uomo solo. E non a caso, potremmo dire con il senno del poi!

E adesso entriamo nel vivo delle questioni da te proposte, tra le quali in primis c’è la domanda: quale è stata la vera natura del PCI, inteso quello della “svolta”, un partito anti-sistema, del sistema o nel sistema? Indubbiamente questo è il punto di partenza imprescindibile per dare una versione non propagandistica e accademica della “via italiana al socialismo”. La domanda non ha una risposta secca (come tu ben sottolinei) ma deve prevedere una “trama” nella quale inserire un ragionamento articolato, un percorso, un processo politico, che parte dalla Costituzione, parte cioè dall’idea togliattiana della Costituzione come processo, come programma politico di costruzione di un modello di democrazia, dentro il quale si devono riconoscere sia le forze politiche che le formmaca499e politiche della democrazia e al di fuori del quale si devono collocare tutte le forze “antidemocratiche” da combattere. In sostanza solo dentro il quadrato delle forze politiche che hanno voluto la Costituzione, solo dentro il perimetro di quel programma democratico è consentita la legittimazione democratica, solo nell’ “arco costituzionale” è possibile vedere e riconoscere il profilo sistemico e ideale della democrazia della nuova Italia, al di fuori c’è solo l’opacità dell’azione reazionaria.

Questa è la grande operazione politica, vincente, di Togliatti, il legame indissolubile, la formazione di un blocco unico tra democrazia-antifascismo-Costituzione, questo è il suo capolavoro. Naturalmente tralascio di entrare nel merito delle discussioni, delle alleanze e delle opposizioni (tra le quali l’opposizione di De Gasperi a un simile “organicismo”) che caratterizzarono i lavori della Costituente e consentirono la costituzione di una ideologia, quella che si è riduttivamente definita “consociativismo”.

Il punto è che la via italiana al socialismo (con annesse “riforme di struttura”) si costruisce tutta attorno a questo asse sistemico e ideologico. Fu, per Togliatti, un deliberato ed efficace esorcismo della questione democratica. Togliatti non risolse mai, fino al Memoriale di Yalta, il problema della democrazia e tutte le citazioni dei testi togliattiani da te utilizzate confermano questo nodo politico e teorico. Il modello democratico nazionale, per Togliatti, non ha il carattere generale, classico della liberaldemocrazia ma quello particolare segnato dalla Resistenza e dalla Costituzione. Quando Togliatti parla di sviluppo democratico e di partiti (questi sono la democrazia che si organizza) non si colloca nelle semplici procedure liberaldemocratiche e quindi alternative al socialismo realizzato, ma ha in mente un duro antagonismo, un contrasto frontale contro le forze reazionarie per l’attuazione del programma democratico sancito dalla Costituzione contro la quale si possono raggruppare tutte le forze conservatrici.

Nell’importante intervento svolto da Togliatti l’11 marzo del 1947 all’assemblea costituente sul primo progetto di Costituzione, il leader del PCI definisce bene il ruolo che l’antifascismo deve avere nella costruzione del modello di democrazia nazionale, nel presidio della democraticità della Costituzione e colloca la “via italiana”  e la “democrazia progressiva” in questo preciso punto di incontro-scontro tra forze democratiche e reazionarie. In sostanza l’antifascismo per Togliatti (ma per l’intera sinistra italiana perfino in quella di matrice socialdemocratica) non è semplicemente un sentimento democratico, un sentimento da alimentare di continuo con l’impegno civile e politico nella dialettica liberaldemocratica ma è il filtro selettivo delle nuove classi dirigenti, tanto più legittimate a governare quanto più ispirate dai principi di emancipazione dei lavoratori.

Diamo la parola a Togliatti: ” (…) noi non rivendichiamo una Costituzione socialista. Sappiamo che la costruzione di uno Stato socialista non è il compito che sta oggi davanti alla nazione italiana. Il compito che dobbiamo assolvere oggi non so se sia più facile o più difficile, certo è più vicino. Oggi si tratta di distruggere sino all’ultimo ogni residuo di ciò che è stato il regime della tirannide fascista; si tratta di assicurare che la tirannide fascista non possa mai più rinascere; si tratta di assicurare l’avvento di una classe dirigente nuova, democratica, rinnovatrice, progressiva, di una classe dirigente la quale per la propria natura stessa ci dia garanzia effettiva e reale, che mai più sarà il paese spinto per la strada che lo ha portato alla catastrofe, alla distruzione”.

Ed è su questo terreno della legittimazione antifascista delle forze politiche, al quale viene attribuito un valore discriminante (dentro o fuori la democrazia) che si forma lo schema compromissorio del sistema politico nazionale, schema che sarà ripreso e sviluppato dalle due culture politiche protagoniste della Costituente: il comunismo italiano e il cattolicesimo democratico. Togliatti in quella stessa seduta dell’11 marzo ’47 interviene proprio su questo punto con grande chiarezza. “Nè io ritengo sia necessario, per assolvere al compito da me indicato, fare quella che è stata chiamata una Costituzione di compromesso. Che cos’è un compromesso? Gli onorevoli colleghi che si sono serviti di questa espressione, probabilmente l’hanno fatto dando ad essa un senso deteriore. Questa parola non ha però in sé un senso deteriore; ma se voi attribuite ad essa questo senso, ebbene, scartiamola pure. In realtà, noi non abbiamo cercato un compromesso con mezzi deteriori (…) meglio sarebbe dire che abbiamo cercato di arrivare ad una unità, cioè di individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse, ma un terreno comune che fosse abbastanza solido perchè si potesse costruire sopra di esso una Costituzione, cioè un regime nuovo, uno Stato nuovo (…)“.

La democrazia è dunque per Togliatti una condizione “sospesa” che trova una sua forma solo nel quadro dello scontro di classe che vede da un lato i partiti della conservazione, i gruppi “avidi ed egoistici della plutocrazia”, il “grande capitale monopolistico” e dall’altro gli obiettivi avanzati della Costituzione. Secondo Togliatti, i partiti “ammessi” alla vita democratica dovranno avere “una base nel popolo e un programma democratico nazionale” e mantenere “la loro unità per far fronte a ogni tentativo di rinascita del fascismo”. Questi sono i paletti della democrazia secondo Togliatti, l’antifascismo e la Costituzione.

Siamo dunque di fronte a una vera e propria via italiana alla “democrazia” e Togliatti costruisce un assetto strutturale entro il quale il nostro sistema politico, negli anni a venire  e con alterne vicende, prenderà forma e andrà a definirsi per progressiva moltiplicazione, intreccio e stratificazione degli sviluppi proprio di quel principio costitutivo che vuole la forma democratica indissolubilmente legata alla formula costituzionale. Da qui, pure, discendono altri due caratteri “forti” del nostro particolare modello democratico: la difficoltà a definire l’unità nazionale superando i vincoli ideologici, tuttora operanti, dell’antifascismo e dell’anticomunismo (ed è una difficoltà che dispiega i suoi effetti perversi sulle nostre ultime vicende politiche) e, su un altro piano ma non completamente slegato dal primo, l’idea “totalizzante” del partito. Si può affermare che il partito togliattiano è il modello prevalente se non nazionale del partito politico (al di là dei “tecnicismi” o formalismi di organizzazione dei dibattiti interni alle forze politiche), per la sua visione organicistica del rapporto tra politica e società, ruolo della politica e delle istituzione e finanche del rapporto tra sfera pubblica e privata. Ma su questi aspetti, anche all’interno della mia riflessione, sto procedendo ad approfondire la ricerca sulla cosiddetta “specificità” del nostro modello di democrazia per comprendere le ragioni per cui tale “specificità” piuttosto che stemperarsi rispetto a un modello “europeo” di democrazia tende, piuttosto, ad allargarsi.

E veniamo all’altro snodo del tuo libro: il PSI e il valore fondante dell’unità del movimento operaio inteso come scenario di fondo che ha, con alterne vicende, dominato la linea dei due partiti di massa della Sinistra italiana sino quasi alla fine degli anni ’70. Su questo punto va detto con chiarezza che il PSI non solo è dentro la logica unitaria ma ne è condizionato. Anche l’autonomismo di Nenni ne è subalterno. Infatti l’operazione del PSU è finalizzata ad accrescere il potere contrattuale dei socialisti (unificati) nei confronti della DC ma non del PCI. L’autonomismo di Nenni non fuoriesce in nessun caso dall’unità del movimento dei lavoratori, che resta il vincolo ideologico del socialismo italiano, fino a Craxi. In un mio recente intervento (Il PSI nella crisi della prima Repubblica, Marsilio) ho distinto le due versioni dell’autonomismo socialista, l’autonomismo funzionale e l’autonomismo conflittuale, segnato per l’appunto dal passaggio del Midas. Perché il Midas è il punto di passaggio sia della questione socialista (che non si riproporrà più sotto il vincolo unitario) sia della eredità e della tradizione togliattiana, che prenderà con Berlinguer tutt’altra direzione, come tu spieghi molto bene.

E’ Craxi il primo a rompere il “blocco ideologico” costituito dall’intreccio unità antifascista-Costituzione-democrazia progressiva, una rottura che è condizione essenziale per la liberazione e lo scongelamento della democrazia bloccata e la modernizzazione del sistema politico italiano. Finché la esperienza democratica si è riconosciuta esclusivamente nel conflitto di classe per la definitiva sconfitta del blocco conservatore, rispetto al quale non era pensabile alcuna alternanza, in quanto il movimento dei lavoratori non può riconoscere a questo blocco alcuna legittimità democratica a governare, finché la democrazia si è mantenuta in questo circuito chiuso non è stata possibile alcuna esperienza di socialismo autonoma da quel blocco ideologico. Craxi è il primo, dunque, a separare il socialismo italiano dalla via italiana al socialismo e “costringere” Berlinguer a prendere atto, agli inizi degli anni ’80 e in coincidenza del governo Craxi, dei destini diversi della Sinistra in Italia e a ripiegare dal compromesso storico alla “diversità” del PCI.

Tu sei convinto che la svolta di Berlinguer (una svolta “azionista” la chiami) trova una giustificazione nella radicalizzazione dell’autonomismo di Craxi, e vedi giusto. Dove non convengo con te è su un giudizio indifferenziato e negativo delle due svolte, anche se si sono tenute assieme e assieme sono cadute e soprattutto è difficile da sostenere che una ripresa (creativa) della “vita italiana” di Togliatti (come ebbe a sostenere Napolitano nel 1981 in polemica con Berlinguer) avrebbe consentito da sola la ripresa del rapporto unitario a sinistra e dato l’avvio alla normalizzazione del sistema politico nazionale. Così come è da condividere pienamente l’idea, con la quale chiudi il libro, secondo cui il cortocircuito tra diversità-questione morale-giustizialismo non soltanto è completamente estraneo alla tradizione del togliattismo e del comunismo italiano, anzi ne capovolge la  logica “laica” (la laicità della politica è propria della visione di Togliatti) ma ha compromesso (e speriamo non definitivamente distrutto) l’identità della Sinistra in Italia. Resta il dubbio che questa miscela di nuovismo e giustizialismo sia stata il brodo di coltura delle involuzioni e delle miserie della Seconda repubblica.

Hai scritto un libro importante e hai approfondito la ricerca di una fase storica e di un personaggio “strategico” per l’insediamento nell’occidente capitalistico di una esperienza politica “diversa”, forse alternativa alla vicenda del leninismo ma in ogni caso organica a questa. Forse l’operazione togliattiana di occidentalizzazione del leninismo per sottrarla alla sua versione “asiatica” (proseguita da Berlinguer e si veda a proposito la sua intervista a Scalfari del 2 agosto del 1978) ha conosciuto così tanti oppositori interni a ragione della sua temerarietà e della impossibilità, teorica e pratica, di ricercare “terze vie” se non all’interno delle storie (al plurale) della democrazia in Occidente, che sono state e sono storie riuscite di democrazia solo nel conflitto tra socialismo democratico e liberalismo. Può esserci un’obiezione da parte tua, rivolta alla mia lettura di Togliatti che pretende di interpretarlo attraverso le lenti di Popper! Può essere che tu abbia ragione, in fondo Popper (per fare un nome rappresentativo di un’area politica e culturale) è entrato nelle nostre biblioteche sono alla metà degli anni ’80 (e che fatica!). La risposta sta nella chiave interpretativa su cui ruota il tuo lavoro e che deve indurci ad ulteriori approfondimenti, quando affermi che solo con l’inserimento del togliattismo dentro le linee di sviluppo del socialismo europeo (non semplicemente contrapponendolo alla socialdemocrazia) è possibile valorizzare l’elaborazione e l’esperienza politica di Togliatti. In fondo questo è stato il tentativo, dei miglioristi e più in generale di tutti i riformisti, di rispondere alla crisi dell’89 con le risorse del socialismo europeo. Quel tentativo fallì.

Scritto da

Rino Formica

- Classe 1927. Guarda al futuro socialista dell'Italia e dell'Europa.