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17 Giu 2013

Gli effetti dell’aumento dell’IVA

Si propaga il timore sull’incremento dell’IVA, ma che cos’è e come potrebbe impattare su tutti noi?

Premessa

L’IVA è un’imposta generale sui consumi, che colpisce solo l’incremento di valore che un bene o un servizio acquista ad ogni passaggio economico (valore aggiunto), a partire dalla produzione fino ad arrivare al consumo finale del bene o del servizio stesso. Quindi è un’imposta che impatta su tutti gli acquisti, l’aliquota ordinaria è del 21%, mentre ci sono quelle ridotte 10% (alberghi, bar, ristoranti e altri prodotti turistici, determinati prodotti alimentari, prodotti fitosanitari e particolari opere di recupero edilizio) o 4% (ad es. generi alimentari di prima necessità, stampa quotidiana o periodica ed i libri, opere per l’abbattimento delle barriere architettoniche, alcuni tipi di sementi, fertilizzanti).

L’IVA rappresenta un costo solo per i soggetti che non possono esercitare il diritto alla detrazione e quindi, in generale, per i consumatori finali.

Nell’applicazione dell’imposta sul valore aggiunto occorre quindi distinguere il contribuente di fatto (il consumatore finale), che pur non essendo soggetto passivo dell’imposta ne sopporta l’onere economico e il contribuente di diritto (di norma un imprenditore o un professionista) su cui gravano gli obblighi del soggetto passivo d’imposta, sebbene per lui l’imposta resti neutrale.

Come tutte le imposte sui consumi è un’imposta indiretta che grava sui beni nel momento in cui essi vengono consumati. Le motivazioni che spingono ad utilizzarla da parte del sistema tributario, sono diversi:

 

  • la semplicità amministrativa, sia l’accertamento che la riscossione sono più agevoli e meno costosi, rispetto alle imposte sul reddito e a quelle sul patrimonio (v. Imposta sul patrimonio);
  • la capacità di generare illusione fiscale, infatti il frazionamento dell’onere dell’imposta fra più individui e la sua inclusione nei prezzi di vendita rende più sopportabile il prelievo.

Ma critico è il suo svantaggio soprattutto in termini di distribuzione, infatti tale tipo di imposta è un’imposta regressiva rispetto al reddito; infatti, dato che il consumo totale dipende dalla sua propensione marginale e dato che quest’ultima decresce al crescere del reddito, un’imposta sul consumo grava soprattutto su coloro che producono un reddito basso.

Ipotesi a confronto

Il Prof. Francesco Daveri in “Sorpresa: l’aumento dell’Iva colpirebbe di più i ricchi” ( www.lavoce.info) sottolinea che l’aumento dell’Iva potrebbe avere effetti meno regressivi rispetto a quanto si pensi. Infatti nella tabella allegata si evidenzia che le famiglie meno abbienti – il primo quinto nella tabella Istat – destinano la maggior parte della loro spesa (circa il 38 per cento) alle categorie di beni e servizi colpite dall’Iva al 4 o all’10 per cento (la cui aliquota rimarrebbe ferma), mentre i beni “ivati” al 21 per cento rappresentano solo poco più di un quarto del loro paniere di spesa. Facciamo un esempio: l’aumento dell’IVA dal 21 al 22 per cento, comporterebbe per  una famiglia che spende 20 mila euro l’anno un aggravio di tassazione pari a 52 euro, mentre le famiglie più ricche che spendono quasi il 40 per cento del loro paniere in beni e servizi con Iva al 21 per cento. Per una famiglia con una spesa di 40 mila euro l’anno (dunque doppia rispetto alla famiglia meno abbiente), l’aggravio di tassazione sarebbe di 156 euro, dunque di tre volte maggiore rispetto a quello della famiglia meno abbiente.

Sarebbe un’ipotesi affascinante che però non convince del tutto, infatti il prof. Daveri sceglie di considerare, come elemento su cui computare l’aliquota d’imposta, i consumi, e non invece, come impone la prassi, il reddito disponibile delle famiglie. Infatti di norma si considera la pressione fiscale in rapporto al Pil (reddito) e non alle diverse basi imponibili su cui gravano i diversi tributi.

Facendo così i risultati cambierebbero notevolmente, poichè se ponderiamo i dati in tabella con con la quota di consumo rispetto al reddito (è quanto fatto dall’ Ufficio Studi Confcommercio) i risultati confutano in modo inequivocabile le conclusioni del Prof. Daveri. Infatti emerge che non solo l’Iva nel complesso è regressiva ma lo è anche per scaglioni d’imposta: infatti in percentuale del reddito, le aliquote al 4 per cento, 10 e 21 pesano comunque di più sui poveri piuttosto che sui ricchi. E la situazione non migliora certamente passando dal 21 al 22 per cento. Tutto ciò in linea con la teoria, quindi possiamo concludere che un’eventuale ulteriore aumento dell’IVA comporterebbe un’ulteriore contrazione dei consumi, graverebbe sulle classi meno ambienti e andrebbe in netto contrasto con il principio di progressività delle imposte espresso  nell’art. 53 della Costituzione che dispone in tal senso: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”.

Scritto da

Luigi Cristiani

- Economista e appassionato di tutta la letteratura economica da Smith a Marx, da Keynes a von Hayek, da Modigliani a Friedman. Amo i fumetti della Marvel (Spider-Man, The Avengers, Fantastic Four, X-Men), lo squash, il tennis e il basket. Patito per il Napoli