Governo e parlamento
di Fulvio Cammarano*
Il decreto “del fare” ottiene la fiducia alla Camera con il voto contrario di Sel, Movimento 5 Stelle, Lega Nord e Fratelli d’Italia. Si tratta di una vittoria amara per il Governo non solo e non tanto per l’annunciata intenzione delle opposizioni (e in particolar modo del M5S) di fare ostruzionismo attraverso la presentazione di un enorme numero di ordini del giorno che devono essere discussi dopo la fiducia e prima del voto finale. Per Letta, infatti, – al di là dei guai e dei ritardi dovuti allo stravolgimento del calendario dei lavori parlamentari e dei tempi di approvazione di altre leggi simbolicamente importanti – non può non essere motivo d’amarezza essersi incamminato sulla strada dei suoi predecessori, costretto a prendere atto che l’unico vero motore della vita politica italiana è, ormai, quello dell’emergenza sul cui altare sempre più spesso si sacrificano i principi elementari della democrazia liberale.
Da quanto tempo in Italia non possiamo più permetterci sui grandi progetti un grande e approfondito dibattito parlamentare? Peggio: c’è ancora qualcuno che s’interessi a questo deficit di democrazia deliberativa? Come è facile da dimostrare, la strisciante guerra civile degli ultimi anni ha introdotto la consuetudine alla blindatura dei processi decisionali con una sostanziale perdita di sensibilità politica degli italiani che si stanno abituando a considerare l’esecutivo un organismo separato dal resto del Paese. La centralità del governo nelle fasi di crisi è ovvia e inevitabile e, per quanto ci riguarda, ci viene ricordata sempre più spesso dal Presidente della Repubblica che, in nome di quella centralità, ha più volte interpretato in modo decisamente “presidenziale” un ruolo che una volta era ritenuto di garante defilato, posto dietro le quinte del sistema politico. Anche recentemente Napolitano è intervenuto – in risposta a un intervento critico di Bertinotti che lo aveva accusato di voler congelare d’autorità una delle possibili soluzioni al problema del governo del Paese, quella in atto (cioè il governo Letta), “come se fosse l’unica possibile” – negando di voler blindare alcunché. Ha però confermato che è suo dovere “mettere in guardia il Paese e le forze politiche rispetto ai rischi e contraccolpi assai gravi, in primo luogo sotto il profilo economico e sociale, che un’ulteriore destabilizzazione e incertezza del quadro politico-istituzionale comporterebbe per l’Italia”. Il voto e più in generale la politica, per Napolitano, dopo le recenti prove (dalla caduta di Monti al fallimento di Bersani), non sembrano, al momento, poter garantire una vera alternativa, ma rappresentano degli azzardi pericolosi. La crisi, insomma, sembra dire il Presidente, reclama stabilità di governo, qualunque esso sia e il Capo dello Stato non intende metterla a rischio per alimentare le dinamiche spesso inconcludenti di un confronto politico costretto a girare a vuoto a causa della mancanza di un’attendibile legge elettorale. Una preoccupazione più che legittima per chi deve garantire l’unità e la stabilità del Paese, che però dovrebbe segnalare non solo l’urgenza del momento, ma anche la necessità di un suo superamento attraverso la volontà dei partiti di tornare ad essere, almeno in parte, cinghia di trasmissione di una volontà popolare che ricomponga, pur nella distinzione dei ruoli, una frattura ed una distanza tra esecutivo e legislativo, dannosa, come si vede, per il prestigio e la credibilità di entrambi.
*Ordinario di storia contemporanea, Università di Bologna
dal “Giornale di Brescia” del 24-07-2013