Tarda mattinata di un giorno di novembre, Roma. Il corteo di studenti in arrivo da via dei Fori Imperiali è a Piazza Venezia, marcato a zona dalla polizia. Io sono con un’amica a duecento metri di distanza, all’imbocco di via delle Botteghe Oscure, davanti al Bottegone, la vecchia, mitica sede del Pci. Mi fermo un momento a guardare, e ho l’impressione di essere salito a bordo della macchina del tempo, back to the future. Quaranta anni fa, primi Settanta, esattamente nello stesso posto dove adesso rallentano gli studenti, alla testa di non so più quanti cortei almeno all’apparenza del tutto simili a questo, c’ero anch’io. Tutto torna, dunque, o per meglio dire tutto si ripete seppure sempre più stancamente?
Per un attimo (passati i sessanta capita, ragazzi miei) mi viene da pensare che sia proprio così. Solo per un attimo, però. Il corteo sembra uguale, i diciottenni, se non li osservi proprio da vicino, sembrano sempre gli stessi. Ma è un altro mondo, un’altra Europa, un’altra Italia. E sono altri giovani, altri studenti. Questi di oggi si sentono, e giustamente, derubati del loro futuro. La mia generazione, anche quelli che volevano rovesciare il mondo come un calzino e non disdegnavano, anzi, la pratica della violenza di massa, persino quelli che poi si persero nei gironi infernali del terrorismo, almeno all’inizio del suo percorso era invece straconvinta, beata innocenza, che un futuro assai simile al paradiso terrestre fosse lì, a un passo, e bastasse allungare la mano per prenderlo. Se si contestavano in piazza le classi dominanti, il governo, i partiti (compresi, eccome, quelli della sinistra storica), la scuola, la famiglia tradizionale, l’esercito, il carcere e chi più ne ha più ne metta, era perché queste istituzioni si mettevano in mezzo, per impedire ai giovani di allungarla, questa benedetta mano: ma, si pensava, erano dei termitai, bastava soffiare con la giusta forza e sarebbero venute giù. Ci vollero quasi tutti gli anni Settanta per capire che le cose stavano molto diversamente, e infatti il movimento del Settantasette fu tutt’altra cosa rispetto al lungo Sessantotto che avevamo vissuto sin lì. Anche nelle manifestazioni di piazza, anche nei cortei.
Quella mattina di novembre del 2011, facendo tra me e me il gioco delle analogie e delle differenze, mi è tornata alla mente un’altra manifestazione. Era la sera del 21 giugno del 1976, il Pci, nelle elezioni politiche, aveva sfiorato il 35 per cento, il Campidoglio era stato appena conquistato, una vittoria storica dalla sinistra. Sotto il Bottegone (proprio dove stavo io adesso), c’erano migliaia di persone, soprattutto ragazze e ragazzi. Molti erano del Pci o della Federazione giovanile comunista. Ma c’erano pure quelli di Lotta Continua e di altri gruppi della sinistra radicale, e giovani che non militavano, come si diceva allora, da nessuna parte. “E’ora, è ora, il potere a chi lavora”, era lo slogan più gridato, che sembrava unire generazioni diverse. A tarda notte, dal Bottegone partì un corteo spontaneo, preceduto da un camion scoperto bianco gremito di giovani e di bandiere, inneggiante a “Roma rossa”. Molti dirigenti del Pci, con qualche buona ragione, non ne furono affatto entusiasti, ma non è questo il punto. Il punto è che quei ragazzi, a modo loro, festeggiavano finalmente una vittoria e se stessi vittoriosi. Tanto che a nessuno passò per l’anticamera del cervello di passare per piazza del Gesù, a sbeffeggiare e insultare i democristiani vittoriosi. Il 12 novembre del 2011, il giorno della caduta di Berlusconi, non è stato così, forse perché c’era pressoché solo la sua sconfitta da festeggiare, forse perché nessun ragazzo spera, magari ingenuamente, che potrà essere la politica, qualsiasi politica, a restituirgli il futuro.