Il merito non serve
No, ovviamente non voglio fare la solita osservazione qualunquista in base alla quale il “Merito” non viene sufficientemente valorizzato nel nostro Paese. Quello che voglio qui dimostrare è che l’applicazione errata di principi “meritocratici”, lungi dal portare benefici al Sistema Paese, può essere deleteria per lo stesso. A tal fine la prima domanda che dovremmo porci è legata a cosa sia effettivamente il “Merito”. In questa esposizione utilizzerò l’analisi di un particolare settore, quello dell’Università, ma molti dei concetti che presenterò possono essere facilmente estesi all’intero Paese. La riforma dell’Università, che ci è stata spacciata come “meritocratica”, ha bisogno, per diventare realmente operativa, di un gran numero di decreti attuativi. Per molti di questi il Ministero sta chiedendo pareri a Organismi quali il Consiglio Universitario Nazionale – CUN – e l’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca – ANVUR – (che hanno recentemente formulato delle proposte sui criteri per le abilitazioni nazionali, cioè quei concorsi “aperti” che forniscono la possibilità di essere chiamati, come Professori Ordinari o Associati, dagli Atenei) o a Organizzazioni quali la Conferenza dei Rettori delle Università Italiane – CRUI. I criteri proposti sono spesso stati incentrati su indici quantitativi, che dovrebbero rendere maggiormente oggettiva la valutazione dei candidati alle varie posizioni in Università. In particolare già per la sola ammissione a partecipare a questo concorso, è richiesto il possesso di un certo numero (variabile per settore) di pubblicazioni di una assegnata qualità (di norma misurata in base alla sede di pubblicazione, cioè al fatto che la rivista sulla quale si pubblica sia inserita, o meno, in elenchi internazionali di riviste del settore).
L’introduzione di criteri oggettivi di selezione è senza dubbio auspicabile, in quanto rende la valutazione maggiormente trasparente, riducendo la possibilità di scelte arbitrarie dettate da motivazioni “inconfessabili”. Tuttavia gli effetti sul sistema Università sono facilmente prevedibili: se per diventare “professore”, o essere promosso a ruoli superiori, è essenziale pubblicare (e non altro) è pensabile che la maggior parte degli Universitari inizierà a vedere la pubblicazione come unico obiettivo, trascurando tutti gli altri compiti. Ciò porterà senza dubbio a una riduzione dell’impegno nella didattica con conseguente scadimento della qualità dell’offerta formativa dell’Università. Inoltre se l’obiettivo fondamentale deve essere la “pubblicazione”, perderà di interesse un’altra ricaduta essenziale della Ricerca, in particolare applicata, cioè la produzione di brevetti. In altri termini questo approccio rischia di snaturare completamente la peculiarità dell’Università come Istituzione che coniuga al suo interno Ricerca e Didattica, in un approccio simbiotico che consente di trasferire immediatamente nell’ insegnamento i risultati più recenti così come di permettere ai ricercatori di trarre, dal contatto quotidiano con i giovani più brillanti, idee nuove sulle quali indagare. Si faccia attenzione: qui non sto dando un giudizio sulla questione. Il mio interesse principale è quello di dimostrare come alcune scelte influenzino in maniera significativa l’intero sistema, ma come questo elemento non venga normalmente preso in considerazione da chi costruisce le “regole”. In altre parole le “regole” vengono di norma costituite senza una visione completa del sistema sul quale vanno a incidere e, ancor più grave, senza aver capito “a cosa serve” il sistema che si vuole riformare. Senza ovviamente cadere nella dietrologia di pensare che chi costruisce queste regole voglia conseguire l’inconfessabile obiettivo di distruggere il sistema sul quale interviene. E’ per questo che al termine “merito” andrebbe sostituito quello di “utilità sociale”. A chi giova un bravissimo scienziato (o artista, o tecnico, o insegnante, etc.) se quello che “produce” non serve in alcun modo (materialmente o intellettualmente) alla società nella quale vive? In definitiva qualsiasi riforma di un sistema dovrebbe partire da poche considerazioni:
– “a chi serve” il sistema;
– “cosa si vuole ottenere” dal sistema;
– “quanto si è disposti a investire” per ottenere il risultato.
Solo da queste risposte possono nascere quelle riforme che possono rimettere sui giusti binari il nostro Paese, e non da vuote parole d’ordine “meritocratiche”.