Il rebus egiziano
L’Egitto del dopo Mubarak sembrava, almeno all’apparenza, avviato verso un processo di normalizzazione grazie al primo governo democraticamente eletto dopo anni di dittatura.
Eppure sono ritornate le proteste, gli scontri, i manifestanti a piazza Taḥrīr. L’esercito ha deciso di sospendere la costituzione, deporre il premier Morsi e oggi c’è alle porte una sanguinosa guerra civile. Nel breve arco di due anni, la parabola dell’Egitto democratico sembra essere ritornata al punto di partenza. Quasi come nel naturale rincorrersi delle stagioni, abbiamo assistito ad un ciclo di primavera, autunno, di nuovo primavera e forse nuovamente autunno.
Molto probabilmente questa percezione circolare degli eventi è il frutto della vulgata binaria dei media occidentali impegnati a cercare ossessivamente i buoni e i cattivi più che ad analizzare e cercare di capire quello che sta succedendo in questa fetta di mondo. Dapprima c’è stato l’entusiasmo e la gioia per una esportazione di democrazia occidentale non più imposta con le armi, ma nata spontaneamente e dal basso grazie a tanti giovani stanchi di subire angherie, poi è venuta le delusione perché a conquistare il potere non sono stati i democratici ma gli islamisti e ora di nuovo la gioia e la speranza per le nuove proteste.
Per gli occidentali, a seconda dei punti di vista, i giovani di piazza Taḥrīr sono diventati l’emblema di un mondo che crede nell’universalità dei valori liberal-democratici o al contrario il simbolo di un mondo stanco del modello liberista dominate. Questo slancio di identificazione ci ha spinto a considerare la composita massa dei manifestanti, diversi tra paese a paese, quasi fossero un unicum. Un insieme di laici e democratici in contrapposizione a un indistinto grumo di fanatici religiosi e di corrotti dittatori. Così, limitandoci ad osservare la realtà con i nostri occhi, abbiamo letto, e per certi versi continuiamo a farlo, la realtà egiziana quasi come se fosse lo specchio di quella occidentale, parteggiando per una componente o per un’altra a seconda delle nostre simpatie politiche.
Eppure, nonostante un eccesso di tifo, la realtà egiziana continua ad essere sfuggente e di difficile interpretazione. Soprattutto non è facile comprendere perché il primo presidente democraticamente eletto della storia d’Egitto sia stato deposto dai moti di piazza e dall’esercito.
E’ stato un golpe o è stata democrazia? E chi sono i democratici: le opposizioni che, sconfitte al voto, hanno puntato sulla piazza o il governo di Morsi che ha accentrato tutto il potere?
La realtà è che quello iniziato in Egitto due anni fa non è che la prima tappa di una lunga storia di cui nessuno può prevedere l’evoluzione e che con troppa faciloneria pensavamo potesse consumarsi con la semplice caduta di Mubarak. In effetti, come non era sfuggito agli analisti più attenti, il movimento di protesta contro il regime aveva avuto successo soprattutto per l’appoggio incondizionato dell’esercito che ha aperto la strada alle prime elezioni libere che avrebbero dovuto sancire, almeno in teoria, il trionfo dei giovani rivoluzionari.
A vincere invece è stata la Fratellanza Musulmana, una potente e ricca organizzazione nel contempo “estremista e di governo”, che basa la sua ideologia sul principio che la soluzione a tutti i problemi individuali e sociali non potrà mai essere raggiunta fin quando non si istaurerà “un nuovo ordine mondiale mussulmano”.
Il sostegno dei Fratelli Mussulmani, in Egitto come per certi versi anche in Turchia, si regge su due ceti sociali ben distinti: la classe media mercantile e, soprattutto, quella parte del paese che vive in condizioni di estrema povertà. I primi sono affascinati sul piano prettamente ideologico dalla risposta religiosa all’egemonia culturale occidentale, mentre i poveri sono attratti più dalla risposta ai problemi concreti dei cittadini che la fratellanza è capace di dare. Per decenni, infatti, sostituendosi alla macchina statale, questa organizzazione ha creato una complessa rete di protezione sociale basata sui servizi educativo – sanitari e di consulenza per problemi legali e burocratici.
Così questa silenziosa, numerosa quanto agguerrita e coesa parte del paese ha permesso a Morsi di vincere legittimamente le elezioni anche grazie alla litigiosità delle opposizioni che non sono state in grado di esprimere una visione comune.
In meno di due anni di governo in Egitto però, i Fratelli musulmani, fermi nel principio di non volersi mescolare con gli altri partiti, hanno iniziato a monopolizzare lo stato tanto da essere individuati da molti egiziani come gli unici responsabili del mal funzionamento del paese. A questo punto il seguito era prevedibile: si è formata una nuova piazza che, riunendo gli arrabbiati e gli sconfitti e grazie ancora una volta all’esercito, ha organizzato un nuovo colpo di stato. Tutto finito quindi? Probabilmente no perché è altrettanto prevedibile che nei prossimi giorni divamperà una guerra civile che rischia di far sprofondare ancora più nel baratro l’Egitto. I Fratelli Mussulmani, anche se sconfitti nelle piazze, continuano ad avere il controllo di gran parte del paese e non è da escludere che possano vincere anche future elezioni, a meno che, come pare, non siano messi ancora una volta fuori legge.
In pratica la fragile democrazia egiziana, ora come ieri, è nelle mani dei militari capaci di fare il bello e il cattivo tempo, e, come si sa, quando l’esercito esce dalle caserme non è mai facile farlo tornare indietro.