La Fiat lascia l’Italia
La Fiat lascia l’Italia.
Il nuovo gruppo, nato dall’ unione della casa torinese con quella di Detroit, si chiamerà Fiat Chrysler Automobiles (Fca) e sarà a tutti gli effetti una grande industria globalizzata. La sede legale sarà in Olanda, la residenza per fini fiscali starà nel Regno Unito ed entro fine anno sarà quotata a New York e a Milano.
Mentre la politica e l’opinione pubblica sono impegnate a discutere e litigare sulla legge elettorale e sulle riforme, sotto gli occhi distratti di tutti è avvenuto un fatto storico, un cambiamento che rischia di avere delle pesantissime ripercussioni sull’economia reale del paese.
Per ora l’ex gruppo torinese si è limitato a spalmarsi per il mondo per motivi fiscali, ma c’è da scommetterci che questo non è che il primo passo del trasferimento, magari tra qualche anno, di gran parte della produzione in paesi più convenienti.
Quello che sfugge a molti è che l’operazione di Marchionne non è una semplice questione di ristrutturazione industriale. È il trionfo assoluto della globalizzazione e della nuova economia dove è possibile delocalizzare tutto per pagare salari inferiori o meno tasse.
L’iniziativa della Fiat, che solo in termini fiscali significa come minimo 244 milioni di euro in meno nelle tasche dell’Italia, è il disvelamento dell’illusione che la nuova economia globale avrebbe portato vantaggi per tutti, l’illusione che potendo acquistare merci a buon mercato, avremmo avuto più reddito a disposizione per altri consumi, è la fine del controllo dello Stato sull’economia.
In questa cornice soltanto economisti e politici rimasti indietro di decenni possono ancora stupirsi che ci sia una ripresa senza occupazione o possono illudersi che la crisi, abbattutasi sul nostro paese, sia un fenomeno passeggero.
Nel mondo globalizzato che abbiamo voluto, la presenza di paradisi fiscali e di paesi dove i salari sono praticamente nulli sta dando vita ad una vera e propria guerra tra poveri, ad una gara al ribasso. Una guerra in cui, in assenza di qualsiasi tipo di regola, i grandi gruppi economici si muovono come surfisti spostandosi di volta in volta in paesi “più convenienti”.
Stiamo ritornando, per usare le parole di Marx, a quell’ “esercito industriale di riserva”, a quella massa di diseredati che, disposti a lavorare con stipendi bassissimi pur di poter lavorare, alimenta la concorrenza e fa crollare i diritti dei lavoratori tanto faticosamente conquistati. Con l’aggravante che tutto avviene in scala planetaria e lo sviluppo economico non è più il prodotto dell’interazione tra sindacati e imprese a livello nazionale, ma dipende esclusivamente dalla “libera circolazione di capitali e dei beni e servizi”.
A questo punto non esistono altre strade se non quella di affrontare la crisi del lavoro su scala globale, esportare i diritti e le rivendicazioni per favorire il più rapidamente l’uscita dalla miseria dei lavoratori concorrenti in altri paesi. Ma c’è da scommettere che ancora una volta il campanello d’allarme lanciato dal caso Fiat non verrà ascoltato. Siamo troppo distratti a discutere dell’impeachment a Napolitano per accorgerci della rivoluzione economica in atto.