La sinistra affronti l’onda populista
Quella che abbiamo visto affermarsi così spettacolarmente pochi giorni orsono nelle nostre elezioni è l‘ultima incarnazione del populismo europeo. Un‘affermazione esplosiva, ma non per questo più indigeribile di altre passate. Infatti il comportamento dei rappresentanti di M5S appare forse meno aspro o dirompente di quanto accadeva per altri populismi del passato. A prima vista i rappresentanti eletti del movimento paiono diversi dal loro “facilitatore“, come Grillo è stato definito. Forse per indole, forse per necessità di penetrare l’indifferenza, Grillo riesce irricevibile nelle espressioni. Ma i rappresentanti eletti risultano finora piuttosto pacati, anche se troppo ingenuamente convinti delle proprie ragioni. Il loro insistere sull’abbassare i compensi dei politici è tipico di un’economia di bassi salari, ma è clamoroso come si eviti l‘attenzione dai luoghi principali in cui i bassi salari si determinano. Quei luoghi non sono le assemblee regionali o il Parlamento, ma le proprietà delle imprese, e i centri decisionali che delineano i loro comportamenti. Nondimeno, mentre per esempio i leghisti riuscivano tutti indistintamente rozzi come Bossi, i “grillini” paiono provenire da ceti informati ed educati, di sicuro versatissimi nell’uso delle tecniche web, fino (anche qui) ad esagerarne le potenzialità di controllo democratico degli eletti. Vedremo.
Intanto, pensiamo a quanto, negli anni passati, la sinistra ha ignorato il vilipendio delle loro professionalità. Deve essere risultato odioso il ripetere, con Blair, “education, education, education” senza mai occuparsi di creare la domanda per tanta “education“, né i giusti salari, o i diritti, che essa merita. Così, il nostro grillismo è parente stretto dei movimenti “Pirati” di Germania e Svezia, ma con della rabbia in più. Una rabbia forse innescata da Grillo, ma causata dal modo più evidente in cui la precarizzazione europea colpisce il nostro mercato del lavoro.
Del resto, ogni populismo deriva da un particolare contesto. In Scandinavia è nato quello moderno di Anders Lange (Norvegia) e Mogens Glistrup (Danimarca): esso, nei primi anni Settanta, era soprattutto “borghese”, ed anti-tasse. Non a caso, intorno al 1970, gli scandinavi conoscevano uno sviluppo della pressione fiscale tuttora ineguagliato, che spaventò molti nei ceti liberal-conservatori. Si scrisse allora di una “rivolta dal mezzo” (le classi medie oppresse) e non “dal basso“ della società. Si trattava, ovviamente, di classi medie estranee alle burocrazie del welfare, che invece in famosi libelli venivano additate come la nuova “classe dominante“, che secondo il nuovo populismo alimentava tasse e spesa per gestire più potere, non per obbiettivi sociali. Lange e Glistrup costruirono forti movimenti aspri e iconoclasti, anche perché ai loro occhi i partiti liberali e conservatori erano ormai complici delle socialdemocrazie. Ovvero (in epoca evidentemente pre-neoliberale) succubi della crescita di Stato sociale e fisco. Ciò conferma che il populismo si alimenta di elementi simili: la delusione per come certe istanze vengono rappresentate dai referenti naturali. E l‘assimilazione dei partiti in un “sono tutti uguali“. In seguito, quando ha vinto l’egemonia del neo-liberismo, a essere colpite dalla delusione dei propri ceti sono state le socialdemocrazie. E anziché la retorica anti-tasse il detonatore è stata la retorica anti-immigrati.
Forse il M5S (come già i Piraten) rappresenta una terza fase. Ma la risposta spetta ancora alla sinistra. Infatti, magari è anche vero che oggi si ricerca una rappresentanza diretta, mito mobilitante anche questo populista cui le tecniche del web fornirebbero un veicolo ovvio. Ma si dismettano gli abbagli postmoderni. La politica e la questione sociale rimangono il centro di ogni spiegazione. Intanto, in Italia, a differenza di quanto avvenuto in Germania o Scandinavia, Grillo (e prima Berlusconi) straborda perché è crollato, dal 1993, l’argine del sistema politico precedente. Cioè una rappresentanza forte e inclusiva che va ricostruita e rilegittimata, pur innovandola. Da noi, inoltre, si verifica in modo estremo un problema europeo: nuove generazioni gettate in un mercato del lavoro in cui si investe meno in innovazione. Perciò si precarizza, si remunerano poco le competenze e aumenta la diseguaglianza salariale. E così declina la mobilità sociale. Certo, anche le retribuzioni dei politici sono un problema: pur rimanendo infinitamente più poveri e innocenti dei managers della finanza, i politici troppo retribuiti, specie se di sinistra, danno l‘impressione di subire il fascino delle “classi dominanti tutte uguali“, “tutte tecnocratiche“, lontane dal “popolo“. Ecco allora che è ben possibile recuperare la rappresentanza di ceti perduti garantendo riforme sui cosiddetti “costi della politica”. Ma soprattutto facendo il lavoro della sinistra: individuando nell’uguaglianza i veri motori della mobilità sociale, operando per i salari e per l‘innovazione e contro la precarizzazione, differenziandosi dalla tecnocrazia neoliberale e dall‘austerità. E credendo che nel M5S esiste una parte “sinistra”, ovvero un possibile rapporto con un ciclo meno selvaggio e più ragionevole di populismo.
Tratto dall’ Unità del 28/02/2013