La sinistra ha vinto, viva la sinistra?
Il rischio è che la vittoria, non troppo emozionante, né clamorosa e neanche del tutto inaspettata – alla luce del primo turno delle comunali – faccia passare in secondo piano tutto ciò che è successo nel corso degli ultimi mesi, risultato delle politiche incluso, che accantoni i limiti, le contraddizioni, le carenze strutturali – culturali, politiche e programmatiche – della sinistra nel suo complesso.
L’epicentro della crisi è – ancora – nel PD. Un partito che vince nei comuni ma non ha risolto nessuno dei problemi clamorosamente emersi da febbraio in poi, che non potranno risolversi se il congresso dovesse concretizzarsi in una semplice presa d’atto del renzismo come stato di necessità, approdo necessario di un partito nato sulla base di presupposti rivelatisi, nel corso del tempo, uno più sbagliato dell’altro.
Dal fallimento della socialdemocrazia, all’esaurimento dei conflitti sociali, alla sopravvalutazione della c.d. “società civile” con la politica ridotta a passatempo e non più impegno quotidiano che presuppone studio e passione. La politica del fare, che può andar bene, teoricamente, per governare – senza una progettualità troppo approfondita – qualche comune di media grandezza ma che si schianta clamorosamente messa di fronte alla necessità di governare una nazione.
Il partito leggero, lo snellimento burocratico ed organizzativo, è stato confuso con il partito liquido; ciò ha comportato la svalutazione, la devalorizzazione di quella che è sempre stata la ricchezza della sinistra: un insieme, un reticolo di presenze sul territorio che consentivano di capire ed interpretare le piccole e grandi tensioni sociali e di cercare, acquisire, consolidare il consenso grazie alle iniziative, agli incontri ed ai confronti politici e di idee che si svolgevano nelle sezioni e nei circoli. Questa organizzazione sul territorio, era un elemento imprescindibile per la circolarizzazione del meccanismo decisionale lungo il percorso centro/periferia/organismi intermedi/centro come per la selezione del gruppo dirigente del partito, che avveniva – generalmente – attraverso una serie di tappe successive sottoposte a continue verifiche negli incontri con gli iscritti ed i militanti.
Il processo decisionale si svolge, ora, solo in una direzione, dall’alto verso il basso. L’impegno di iscritti e militanti è stato mortificato con la sacralizzazione delle primarie aperte e la cooptazione da eccezione è diventata regola.
Il PD è diventato, come accadde al PSI quasi 30 anni fa, il partito degli eletti e degli assessori.
Un partito che vive esclusivamente nelle istituzioni e grazie ad esse ma che con esse, come diretta conseguenza, non può aver nessun rapporto di natura dialettica ed è il partito che subisce, spesso senza aver alcuna voce in capitolo, le decisioni assunte dai suoi rappresentanti nelle istituzioni, limitandosi ad esserne cassa di risonanza.
Si capovolge il meccanismo decisionale e quindi viene meno la possibilità, se non la capacità, di interpretare i movimenti e le dinamiche che intervengono sul tessuto e nel vissuto sociale.
Questo è il prezzo più alto della destrutturazione del partito ed è stato pagato dolorosamente in occasione delle scorse elezioni politiche, che hanno reso evidente l’assoluta assenza di qualsiasi legame tra il partito ed il popolo. Che non è il “popolo della sinistra”, che non è il “popolo delle primarie” ma è il popolo nella sua accezione più larga, vale a dire quella parte, la più numerosa, di cittadini che soffre il dramma della crisi economica e sociale, per l’annullamento delle speranze di crescita individuale e collettiva, per la mancanza di canali di comunicazione e, quindi, di rappresentanza dei propri bisogni.
L’azzeramento della speranza, può facilmente trasformarsi in rabbia. Una rabbia muta, all’inizio, che magari può trovare conforto iniziale nel populismo e nell’antiparlamentarismo ma che poi può diventare preda di ben altri mostri, molto più pericolosi e distruttivi.
La sinistra, questa sinistra, ha rinunciato ad essere espressione di un blocco sociale, ha rinunciato a dare una priorità agli interesse da difendere.Le esigenze della grande impresa, dei gruppi bancari e finanziari, non possono essere poste sullo stesso piano di quelle di chi combatte quotidianamente una battaglia per non perdere la propria dignità di persona e di lavoratore, affrontando, spesso da solo, i costi e gli affronti di una crisi senza precedenti.
Dichiarando l’inutilità, l’inattualità, la “non modernità” di un blocco sociale di riferimento, dichiarando l’impossibilità di definire una scala di priorità degli interesse sociali ed economici, è venuta meno la possibilità di dar vita ad una coalizione sociale. Si è rinunciato, quindi, a ciò che è sempre stata la base, il cuore pulsantem i ogni partito – di massa – della sinistra, sempre ed ovunque nel mondo.
Nel passato, questa coalizione si concretizzava nell’alleanza tra classe operaia e ceto medio intellettuale. IL declino del lavoro “fordista” ed il processo di impoverimento progressivo (vera e propria proletarizzazione) del ceto medio, hanno reso più difficile questa alleanza che resta, però, fondamentale, rivisitandone gli attori, per il futuro della sinistra.
La questione sociale in Italia c’è, è più attuale che mai e la crisi economia l’ha resa ancora più evidente – e più complicata.
Da un alto c’è sempre il lavoro dipendente, anche se fatto di partite IVA, il lavoro precario, il lavoro che non c’è. Dall’altro c’è il capitale, il capitalismo finanziario, soprattutto: improduttivo e rapace, senza frontiere e senza regole, che impone le sue leggi facilitato dall’accondiscendenza miope e complice dei custodi dell’ortodossia neoliberista, basata sul binomio “austerità + rigore”.La questione sociale si risolve nel e con il conflitto sociale: lavoro vs capitale. Nulla è cambiato. Sono interessi legittimi entrambi, contrapposti, che nel conflitto si misurano e la prevalenza dell’uno sull’altro è data dai rapporti di forza in essere in un dato momento. La forza è data dalla rappresentanza politica e se questa manca, se al lavoro è sottratta una adeguata rappresentatività dei suoi interessi, a prevalere saranno sempre gli interessi del capitalismo e dei grandi gruppi che ne sono espressione.
A tutto questo il PD risponde, ha intenzione di rispondere con il “renzismo”, che porta alle estreme conseguenze il “lingotto” veltroniano?
A prescindere dall’impatto mediatico (che, inspiegabilmente, l’abile sindaco continua ad avere) quali sono, in realtà, le proposte di Renzi?
Sul lavoro ha fatto sue le proposte di Ichino, di ridimensionamento del ruolo del sindacato e di maggiore flessibilità e precarietà del lavoro. Ma non finisce qui: la polemica sui costi della politica che da un lato punta ad annullare il ruolo dei partiti come corpi intermedi, soggetti principali per consentire la partecipazione alla vita politica dei cittadini, ai quali garantiscono la propria rappresentanza nelle istituzioni, dall’altro mira – con l’abolizione di qualsiasi forma di finanziamento / rimborso pubblico ai partiti politici – a rendere quasi impossibile l’autonomia della politica e dei partiti che diventerebbero semplici unioni di potentati locali, senza più alcuna comunità di intenti e di valori, senza identità riconoscibili, succubi degli interessi di quanti siano in condizione di esercitare attività di lobbying grazie alla disponibilità di ingenti risorse economiche.
Inoltre, la riopresa di slogan vecchi di 30 anni e dalle incerte fortune – si al merito ma attenti ai bisogni, no all’egualitarismo, si alla grande riforma delle istituzioni; la psettacolarizzazione della politica, l’imbarbarimento del confronto che dalle idee si sposta verso l’insulto, più o meno simpatico, l’uso disinvolto del ricatto (se non sarà così non parteciperò, se non sarà così non farò, etc)
Il completo disprezzo nei confronti degli iscritti e dei militanti di partito, considerati, nel migliore dei casi, dei semplici portatori d’acqua, attacchini, “volantinatori”, che devono cedere il passo agli elettori tout court, che possono, secondo il “renzismo”, decidere delle sorti di un partito per il quale no nspenderanno un minuto del loro tempo e che, ad ogni buon conto, neanche voteranno.
Il partito che diventa un mezzo di promozione personale e perde le sue caratteristiche storiche di comunità, di strumento attraverso il quale uomini e donne, uniti dai medesimi ideali e che si riconoscono nel medesimo progetto, lottano – insieme – per cambiare la società. Il partito diventa un autobus sul quale salire e dal quale scendere a proprio piacimento.
Un partito senza identità, senza memoria condivisa, senza un ideale progetto di cambiamento della società. Un partito gassoso, come la coca cola: passano le bollicine, la bevanda si sfiata, resta un sapore spiacevole. Le bollicine della coca cola hanno un effetto collaterale: si risolvono, il più delle volte, in rumorose, spesso fragorose, emissioni dalla bocca di gas contenuti nello stomaco.
Il partito di Renzi sarà questo, un partito fast food, patatine e coca cola e come la coca cola determinerà una fragorosa – forse autodistruttiva – emissione di gas
Forse, forse, la sinistra non può permetterselo.
Il congresso del PD avrà una importanza fondamentale per la sinistra italiana, presente e futura. Riportare il PD sulle posizioni che furono di Veltroni, addirittura estremizzandole, allontanarsi dall’Europa, dalla sinistra europea, proprio in vista delle elezioni del 2014, rappresenterebbe un ritorno al passato che condannerebbe la sinistra italiana al declino e l’Italia alla marginalità politica ed economica nel continente.