La violenza corre sul web
L’ultimo caso, in ordine cronologico, della violenza che corre sul web è stato quello di Pierluigi Bersani che, colpito da emorragia celebrale, è stato vittima di atroci messaggi sui siti internet di Repubblica e del Fatto Quotidiano e sulle pagine facebook del Fatto e di Beppe Grillo.
Tuttavia basta leggere almeno un po’ i commenti sotto gli articoli dei giornali per accorgersi che minacce di morte, offese, odio ed esultanza per le disgrazie altrui non sono più un fenomeno isolato, sono diventati ormai il vero “pane quotidiano” per molti internauti italiani ( basti pensare al caso del terremoto in Campania o della studentessa di veterinaria che è stata subissata di insulti e minacce per aver difeso la sperimentazione sugli animali).
Senza addentrarci in una lunga disamina sociologica, si potrebbe persino affermare che nell’Italia di oggi internet è visto come il principale strumento di rivalsa nei confronti dei problemi politici, sociali e persino personali.
Questo fenomeno relativamente nuovo per un paese a modestissima alfabetizzazione come il nostro, è in realtà già oggetto di studio in nazioni dove la cultura del web è più evoluta.
Ad esempio la giurisprudenza statunitense ha elaborato una categoria ben precisa, lo hate speech, traducibile in italiano come “incitamento all’odio”, per indicare quei commenti e quei discorsi che non hanno altra funzione se non di esprimere odio e intolleranza verso una persona o un gruppo o di provocare reazioni violente tra gli altri lettori. Poco tempo fa alcuni studenti di cartografia della Humboldt State University in Californiahanno elaborato una “mappa dello hate speech” su Twitter, selezionando manualmente i contenuti inequivocabilmente offensivi da un campione di 150 mila tweet , e altri studi della UCLA University di Chicago hanno dimostrato la correlazione tra disturbi psicologici (ansia, forti livelli di stress, paure generalizzate) e contenuti violentiOvviamente la definizione di hate speech ha generato problemi anche dal punto di vista etico e filosofico. Come fare infatti a tutelare il diritto assoluto di espressione (sancito tra l’altro dal Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti) con l’altrettanto sacrosanto diritto a non vedere gli spazi web subissati di violenza? Secondo avvocato Jeffrey Rosen, considerato il massimo esperto mondiale di diritto digitale, non è possibile immaginare di risolvere il problema senza l’impegno degli utenti e di chi gestisce i siti.
Così come accade nella vita “reale”, gli internauti dovrebbero adottare un codice di comportamento civile aiutando i moderatori ad emarginare chi fa dell’odio e della rabbia l’unica modalità di espressione senza però eccedere in atteggiamenti censori. D’altro canto i gestori delle pagine web (che siano siti, giornali, blog, pagine personali ecc.) dovrebbero impegnarsi ad adottare meccanismi di moderazione dei commenti trasparenti e partecipativi, evitando che i contenuti violenti restino presenti per molte ore sulla rete senza che nessuno prenda provvedimenti, e arrivando persino a bannare i provocatori .
Purtroppo però questi sacrosanti principi si scontrano spesso con gli interessi di economici di molti operatori del settore.
Come infatti il trash fa audience in televisione così anche contenuti aggressivi on line creano traffico, favoriscono i commenti, danno notorietà e quindi aumentano gli introiti. Tutto questo è ancora più vero in una società arrabbiata e stanca come quella italiana dove la popolarità è ormai direttamente proporzionale al livello di insulti: più si grida, si offende, si alimenta la rabbia e la sfiducia è più si ha successo.
Avvelenati dalla violenza verbale sui media tradizionali, nei talk show, nella politica, sui giornali e nello sport, difficilmente gli italiani potranno uscire da questo circolo vizioso, e altrettanto difficilmente politici, giornalisti, editori e personaggi televisivi faranno a meno del lucroso mercato della rabbia e della violenza verbale.
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