La questione è: cosa deve fare l’eurozona e, al proprio interno, ciascun paese membro al fine di accrescere la propria produttività ?
“Si tratta di passare da una concezione che considera la stabilità di un ambiente sociale come conseguenza di un ordine (prodotto di un “dover essere”), ad una mera situazione materiale e contingente di equilibrio tra sistemi di forze” (B. Montanari, Cultura del postmoderno e realtà virtuale: l’eclisse del soggetto nella realtà complessa)
Dopo la fine della seconda guerra mondiale e, in particolare, con la fine della politica dei due blocchi di potere contrapposti USA-URSS, il mondo ha registrato una crescita economica complessiva di tipo esponenziale, della quale non solo non vi è traccia in alcuna delle epoche passate ma in ordine alla quale si dimostrano anche inadeguate le Teorie novecentesche costruite a modello di un’economia produttiva, ancora prevalentemente di scambio, incentrato sull’attività d’impresa di tipo fordista.
Nell’era della globalizzazione dei mercati, l’economia non rappresenta più un “gioco a somma zero”. Attraverso documentate ed ampie ricerche, il premio Nobel per l’economia Michael Spence ha dimostrato come “mai, prima d’ora, abbiamo assistito ad una trasformazione globale dell’economia di questa portata: in un secolo circa il Pil dei paesi avanzati esplode da una quota del 20 per cento sul totale-mondo a più dell’85 per cento e nel contempo anche il valore assoluto del 100 per cento del Pil mondiale è cresciuto in misura eccezionale” (dalla prefazione a Spence, La convergenza inevitabile, 2012).
E tuttavia, per quanto riguarda il dato più ristretto e significativo relativo ai paesi dell’eurozona a 16, l’OCSE registra al 31.12.2009 – prima dell’esplosione dell’eurocrisi finanziaria di debito pubblico sovrano, che ha origine dalla crisi statunitense dei mutui subprime – una crescita decennale complessiva della produttività totale dei fattori economici in media pari soltanto all’1% circa. E inoltre, tra le maggiori quattro economie, il dato della Germania è pari all’1%, quello della Francia allo 0,4%, della Spagna allo 0,1%, mentre quello
dell’Italia, unico dei paesi membri a registrare un dato negativo, di decrescita, è del – 0,8%.
Gli effetti immediati di questa scarsa crescita, o decrescita nel caso dell’Italia, si manifestano innanzitutto nel settore del lavoro e quindi dell’occupazione. Al 31.12.2009, il dato strutturale dell’occupazione dell’euro-16 registra che il totale della forza lavoro occupata – con un dato di disoccupazione stimato in media pari al 9,4% con una punta del 18% in Spagna – è impegnata per il 4% in agricoltura, per il 28% nell’industria e per il 68% nei servizi, con percentuali più o meno simili a tutti i paesi dell’eurozona e in particolare per Germania, Francia, Italia e Spagna.
La questione pertanto è: cosa deve fare l’eurozona e, al proprio interno, ciascun paese membro al fine di accrescere la propria produttività ? Innanzitutto, è bene chiarire che non esiste un unico modello di sviluppo capitalistico, esistono economie di tipo coordinato o di tipo anglosassone o che presentano elementi tipici sia dell’uno che dell’altro modello; in secondo luogo, per lo sviluppo di un’economia di un paese è opportuno elaborare politiche e strategie che tengano conto soprattutto del tessuto economico-produttivo già esistente; infine, l’economia di ciascun paese dipende sempre dall’accordo produttivo tra capitale, in gran parte dominante nell’epoca attuale della finanza internazionale, e lavoro.
In Italia, le riforme politiche degli ultimi venti anni hanno prodotto una significativa e consistente segmentazione del mercato del lavoro. In primo luogo, tra il mondo del lavoro a tempo indeterminato, garantito e sostanzialmente non soggetto a cambiamenti, e il mondo del lavoro precario, viceversa flessibile e sostanzialmente privo di garanzie. E, inoltre, una divisione intergenerazionale tra gli stessi lavoratori di prima e dopo le riforme economiche dell’inizio degli anni Novanta, quasi tutti impiegati a tempo indeterminato i primi e viceversa quasi tutti precari gli altri.
L’esperienza politica di questi ultimi venti anni in Italia dimostra anche come per la destra sia stato sufficiente trovare una “quadra politica” tra interessi localistici e liberisti, in grado di intercettare segmenti diversi e separati del mondo produttivo. In netto contrasto rispetto ad una vision viceversa coordinata, inclusiva e solidaristica, in grado di fare sistema e generare sviluppo nell’intero ambito territoriale di diretto e immediato riferimento, quello bensì nazionale, unitario, a cominciare dal Sud e dalle risorse naturali e
finanziarie da rendere disponibili per l’investimento produttivo.
Nell’ambito di una prospettiva che miri ad una completa e definitiva integrazione politica dell’Europa, noi del Circolo della Prima Pietra pensiamo che l’esperienza politica dell’Italia dell’ultimo ventennio sia particolarmente significativa e, per l’oggi, sia utile soprattutto a costruire una nuova proposta politica, a livello e di livello europeo, incentrata su un diverso e rinnovato patto tra le forze produttive di ciascun singolo paese.
Nel formulare quella che potremmo definire la nostra proposta di principio, per farlo brevemente,abbiamo quindi pensato di avvalerci della seguente riflessione: “l’unica ricetta per la sinistra (…) è mediare tra contrapposti interessi dei lavoratori salariati e individuare una sintesi in grado di mantenere politicamente unito il mondo del lavoro tramite un rinnovato patto di cittadinanza economica che coinvolga tutti, sia i lavoratori dipendenti ‘tradizionali’ – settore pubblico, operai – sia il numero crescente di quelli impiegati nel terziario avanzato e nella manifattura globalizzata ed esposta alla competizione internazionale. Si tratta di un compito non facile, e infatti, a parte una breve stagione nella seconda metà degli anni novanta, la sinistra europea ha segnato il passo rispetto alla destra in molti paesi, tra cui l’Italia” (M. Simoni, Senza alibi, 2012).