Le pensioni (e non solo!) a partire dal lavoro
di Angelo Giubileo.
La manovra del governo Monti ha inciso pesantemente sull’assetto del sistema pensionistico previgente, allungando di molto la prospettiva del pensionamento dei lavoratori attivi, sia giovani che meno giovani. La previsione di un prolungamento dell’attività che – dal punto di vista dell’equilibrio del sistema pensionistico, a seguire le ancora recenti valutazioni del primo semestre dell’anno scorso della Ragioneria Generale dello Stato e quindi del governo Berlusconi con l’ultima manovra estiva – appare del tutto ingiustificata e per chi si considerava già prossimo al pensionamento – soprattutto se al costo di periodi riscattati o ricongiunti con onere a proprio carico – senz’altro ingiusta.
Pertanto, quasi nulla a che vedere con l’altra misura relativa al metodo di calcolo contributivo, introdotto a motivo di equità anche se soprattutto in vista di una successiva generale applicazione alle categorie dei parlamentari e di tutti i lavoratori iscritti alla Casse private. In breve, misura che avrebbe dovuto rappresentare l’obiettivo di una manovra – considerata viceversa equa dal governo, ma nel suo complesso (!) – a garanzia e tutela delle “nuove” generazioni di lavoratori penalizzate nel confronto con quelle “anziane” dalla Riforma Dini dell’8 agosto 1995.
E’ pur vero che, all’atto dell’approvazione definitiva della manovra, il governo Monti e in particolare la ministro Fornero hanno subito precisato che dopo le pensioni occorreva mettere subito mano alla riforma del sistema del lavoro, in virtù del fatto che tra i due settori esiste un rapporto inscindibile, che peraltro è facile ritenere, e non solo a nostro giudizio, addirittura di causa (lavoro) ed effetto (pensioni). Per la qual cosa soprattutto, ritenuto che un primo intervento avesse dovuto riguardare piuttosto la modifica delle regole del mercato del lavoro e poi valutare gli effetti che avrebbe determinato sull’assetto del sistema pensionistico allora vigente, siamo inclini a sostenere che per quanto riguarda la riforma delle pensioni si sia trattato anche stavolta di iniziativa volta, nel suo complesso, essenzialmente a fare cassa. Una considerazione più appropriata dell’introduzione di un diverso metodo di calcolo della prestazione, quale appunto quello di tipo contributivo, deve tenere conto innanzitutto delle differenze tra un sistema pensionistico a ripartizione e un altro del tipo a capitalizzazione. Con riferimento al primo, il montante dei contributi dei lavoratori attivi (o in attività di servizio) serve al pagamento delle prestazioni dei lavoratori inattivi; con riferimento al secondo, il montante dei contributi di ogni singolo lavoratore attivo serve al pagamento della propria futura prestazione. Anche dopo l’introduzione del metodo contributivo, il nostro sistema pensionistico resta un sistema prevalentemente a ripartizione. La novità è nell’introduzione di un metodo di calcolo della prestazione, di tipo contributivo, che introduce al sistema nel suo complesso un elemento in più di capitalizzazione.
Un primo raffronto va quindi effettuato tra i due diversi tipi di sistema e, in particolare, rispetto all’equilibrio finanziario che l’uno o l’altro sono in grado teoricamente di garantire. A tal fine, occorre premettere che le variabili incidenti sul dis/equilibrio di ogni sistema pensionistico sono la retribuzione, l’aliquota contributiva di finanziamento della prestazione che è funzione della retribuzione, la produttività, che dovrebbe essere calcolata con riferimento ad ogni singola unità produttiva ma in genere si fa riferimento alla capacità di un’impresa o altra unità produttiva, e infine il tasso di incremento della popolazione, che comprende la generalità dei lavoratori in attività di servizio e non (pensionati).
Ne consegue che il fattore che incide in maniera determinante sulla prestazione di pensione, tanto da costituirne la diretta causa come già in parte anticipato, è essenzialmente il lavoro, ovvero la retribuzione e la misura dell’aliquota di finanziamento della prestazione che dalla retribuzione deriva in termini percentuali.
In un sistema a capitalizzazione, i fattori della produttività e della popolazione incidono relativamente poco in quanto la misura della prestazione, ad un tempo successivo, deriva direttamente dalla misura dell’accantonamento. Soltanto la rivalutazione delle quote accantonate durante la vita lavorativa può dipendere dall’andamento della produzione, come nel caso del metodo contributivo che prevede la rivalutazione delle quote accantonate in base all’andamento del PIL nominale registrato con riferimento all’ultimo quinquennio antecedente la misura della quota da rivalutare.
Viceversa, in un sistema a ripartizione, quale in prevalenza il nostro, l’ammontare dei contributi deve servire contestualmente, ovvero nello stesso tempo, al pagamento delle prestazioni e pertanto in ragione dell’equilibrio occorre fare anche e soprattutto riferimento all’ammontare degli individui, lavoratori attivi e non, e quindi alla popolazione,coinvolta nel sistema.
Per entrambi i sistemi, è naturalmente possibile valutarne anche la convenienza, stabilendo tra loro un confronto. A prescindere dalla retribuzione di riferimento e dal tasso di dis/incremento della popolazione, entrambi i sistemi risulteranno più convenienti, l’uno per crescenti tassi di produzione (capitalizzazione) l’altro per crescenti tassi di produttività (ripartizione).
A tale proposito, appare evidente che non è affatto questa la situazione che attualmente vive il nostro paese! Nell’epoca che viviamo, il sistema a ripartizione risente negativamente dei tassi d’incremento della popolazione soprattutto non attiva, ma è altrettanto vero che i bassi tassi di crescita reale della produzione incidono negativamente sul calcolo della prestazione di tipo contributivo. In definitiva, si rischia di avere in futuro elevate anzianità di servizio a cui non corrispondono tuttavia adeguate misure di rivalutazione delle quote accantonate.
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