L’Italia ritorni ad essere il Bel Paese
E’ di recente pubblicazione un articolo di Armando Cirillo, già consigliere del ministro Massimo Bray e responsabile nazionale turismo del Partito Democratico, su un tema, complicato e spesso mal gestito, che è quello quello dei “beni culturali” e il loro “rapporto” con le attività turistiche.
L’articolo, corredato di ottime informazioni, dati e statistiche, è provocatoriamente intitolato “Turismo: non basta più essere il Bel Paese, l’Italia si muova”. Dai dati Istat e dell’Osservatorio eCommerce B2c del Politecnico di Milano emerge che l’incoming turistico in Italia diminuisce sensibilmente ogni anno, apportando, in termini di PIL, un misero 4,2% alla ricchezza del Paese. Davvero un magro bottino, considerando tutte le volte che ho sentito affermare da cittadini qualunque, amministratori locali e ministri il motto secondo il quale “l’Italia potrebbe campare di turismo“.
Credo sia stata sacrosanta l’attenzione alla mobilità turistica prevista dalla legge “Art Bonus”: i treni locali, spesso antidiluviani e che passano con una frequenza imbarazzante, non sono certo un cortese benvenuto per i troppi malcapitati turisti. Così come non lo è la frammentazione delle informazioni sui siti web istituzionali (perchè ritengo che sempre di mobilità si tratti) qualora il monumento, il parco archeologico o il Museo sono divisi tra più amministrazioni o soprintendenze.
Quello che ancora non sembra chiaro all’italiano che afferma “potremmo campare di turismo!” è che tipo di turismo ha in mente.
Eh si, perchè l’Italia è un paese troppo ricco di ghiotte attrazioni (storiche, storico-artistiche, paesaggistiche e gastronomiche) in uno spazio troppo piccolo per non porsi questa domanda: che tipo di turismo vogliamo?
Le ipotesi sono sostanzialmente due, entrambe potrebbero portare tanto denaro e fare del turismo un settore importante dell’economia del paese:
1) l’Italia deve mirare ad accogliere il più alto numero di turisti possibile.
2) l’Italia deve puntare a un turismo selezionato.
Le mie, al netto del personale e professionale attaccamento ai temi della tutela e della conservazione, vogliono essere considerazioni meramente economiche.
Nel primo caso l’Italia, attraverso una massiccia operazione di offerte low cost e di ampliamento delle strutture ricettive, potrebbe in poco tempo aumentare il numero annuale di turisti, aumentando così nel breve periodo anche la percentuale di ricchezza (in termini di incassi) del Paese. Una strategia simile inserirebbe l’Italia (come tutt’ora tenta di fare, con relativo poco successo) nel mercato del turismo di massa. In questo modo si creerebbero moltissimi posti di lavoro (servirebbero allo scopo bagnini, camerieri, accompagnatori multilingua, autisti di autobus, cuochi, custodi, etc) e l’economia generale del paese si rimetterebbe in moto.
Ovviamente, come tutte le attività economiche, ogni impresa ha degli introiti di cassa e delle uscite. A fronte di questi enormi incassi, quali sarebbe le uscite necessarie per mandare avanti l’attività? Dipende!
Se decidessimo di arricchirci tutti e subito allora sarebbero davvero poche, “limitate” semmai a un riammodernamento serio delle infrastrutture di mobilità e delle strutture ricettive (fondi pubblici potrebbero aiutare i privati a rimettersi in gioco).
Se decidessimo invece di arricchirci tutti, ma non subito, pensando soprattutto all’economia italiana dei prossimi decenni, allora le spese sarebbero enormi: al fine di preservare per le generazioni future la “materia prima” che si offre al “turista consumatore” (come viene brillantemente denominato da Cirillo), ai milioni di piedi che battono il selciato o i pavimenti a mosaico di Pompei dovrebbero corrispondere milioni di euro per la manutenzione degli stessi; ai milioni di turisti che raggiungono le spiagge dovrebbero corrispondere milioni di euro per la manutenzione delle coste; ai milioni di turisti che girano per le città, le campagne e le montagne italiane dovrebbero corrispondere milioni di euro per la manutenzione di strade, nicchie ecologiche faunistiche e delicati ecosistemi ambientali.
Tutto ciò sarebbe possibile? Considerando la situazione attuale delle casse dello Stato sembra proprio che non siamo in condizioni di affrontare un piano economico del genere.
Consideriamo il secondo caso: l’Italia potrebbe puntare a un turismo selezionato.
Facendo una forse limitativa regressione e accettando pacificamente che le attività che fruttano denaro sono spesso quelle che hanno un’ identità riconoscibile ed affermata, consideriamo la questione del brand italiano: Made in Italy è in tutto il mondo sinonimo di qualità e lusso. Perché un moscovita o un newyorkese spendono molto denaro per una semplice salsa di pomodoro? Perché è fatta in Italia. L’Italia guadagnerebbe di più aumentando la produzione delle salse di pomodoro? Probabilmente no, in quanto il mercato è già saturo, ma potrebbe guadagnare sicuramente di più se diversificasse, mantenendo la qualità “fatta in Italia”, la produzione di salse.
Ritornando al turismo: basta aver avuto a che fare con questo mondo per sapere che il moscovita o il newyorkese, giunti in Italia, sono alla costante ricerca del brand: bellezza, cultura, arte , storia e buon cibo. Quello che non dicevano i dati ISTAT dell’articolo di Cirillo è che l’ incoming turistico straniero in Italia è per buona parte diretto alle città d’arte, alle località paesaggistiche più caratteristiche (ad esempio il Chianti o la costiera sorrentina), ai grandi musei (dove invece il turista italiano latita), insomma i turisti stranieri girano per l’Italia made in Italy. Non a caso, a fronte di un calo delle presenze turistiche (causata anche dagli effetti della crisi economica), negli ultimi due anni si è registrato un leggero incremento degli introiti dal settore turistico: chi viene in Italia è perché può spendere denaro, e non solo nei ristoranti-scandalo, spende nei musei, nelle boutique artigiane, nei siti archeologici, comprando libri e andando al teatro. Insomma chi viene in Italia non ricerca la vacanza low cost, il turista che viene in Italia ricerca una vera e propria esperienza ed è disposto a pagarla, perché vige il potere del brand, perché una vacanza simile sarebbe made in Italy.
Se l’Italia decidesse di investire in un turismo selezionato dovrebbe di conseguenza investire nell’alta formazione artigianale, nella qualità dei prodotti, nella musealizzazione, nella promozione e nella tutela del patrimonio, nei festival e nel cinema (come cassa di risonanza del suddetto brand), nella moda, negli istituti d’arte e nelle facoltà universitarie di archeologia, storia e storia dell’arte. In questo modo si creerebbero numerosi posti di lavoro, come per il primo caso, ma a differenza di quello, non sarebbero direttamente legati a un turismo di massa, soggetto a contrazioni economiche a volte imprevedibili. Si creerebbero le basi per un’economia stabile e soprattutto duratura.
Paradossalmente, per un turista alla ricerca della qualità l’Italia dovrebbe spendere altrettanto che per dieci turisti low cost. Insomma il problema è sempre lo stesso: il turismo non è altro che un settore dell’economia del paese e quindi prima di procedere a una qualsiasi analisi, bisognerebbe capire che tipo di modello economico e di sviluppo generale abbiamo in mente per l’Italia.
Come parlando di l’economia produttiva qualcuno dice che bisogna puntare sull’alta qualità (il famoso made in Italy) e non competere al ribasso (come ad esempio contro la produzione tessile cinese), così anche nel settore turistico (considerato un settore economico tout court) forse sarebbe il caso di puntare in alto e non lasciarsi affascinare da facili soluzioni.
Con la cultura forse non ci arricchiremo domani mattina, ma forniremo sicuramente ai nostri nipoti forti basi per farli andare lontano.
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