Caos prossimo venturo
L’attuale crisi globale, secondo il filosofo ed economista indiano Prem Shankar Jha, è solo l’ultima in ordine di tempo nello sviluppo del capitalismo, essendo alla fine di uno dei suoi cicli di espansione: è la quarta volta che infrange il suo «contenitore» economico, politico e istituzionale, provocando il cosiddetto «caos sistemico», ovvero il crollo delle istituzioni e delle relazioni preesistenti, accompagnato da un prolungato conflitto tra gli stati e all’interno di essi.
Ogni espansione, ha condotto alla riorganizzazione di un’area del pianeta sempre più vasta, la quale ha creato le condizioni per l’avvio del successivo ciclo di accumulazione e per la nascita di una nuova potenza egemone. Al termine della quarta fase di espansione, quella del «secolo americano», si può ipotizzare che stiamo passando a una quinta fase targata Cindia.
In effetti, la storia dell’umanità è il continuo tentativo di adattamento al cambiamento tecnologico: quest’ultimo è il vero fattore propulsivo del capitalismo, perennemente stimolato dal profitto. La società scivola in uno stato di cambiamento costante, in cui è favorita la crescita della competizione: i cambiamenti tecnologici nelle industrie dei trasporti e della comunicazione sono la causa dell’ultimo ciclo di espansione. La costante accelerazione ha sottoposto le istituzioni politiche a una pressione sempre crescente e ha aumentato la violenza di ciascuna transizione.
Le origini di questo paradosso risiedono nel movimento a forbice dell’accumulazione di capitale liquido e delle opportunità di investimento. Dopo uno «scoppio di distruzione creativa», ovvero dopo la spesa iniziale per i nuovi mezzi di produzione che sostituiscono i vecchi, i profitti crescono. Ma ogni sostituzione limita le opportunità di ulteriori e rapidi aumenti di produttività, e scendono le probabilità di profitto sugli investimenti futuri. Ciò crea una pressione inesauribile da parte di quantità crescenti di profitti generati dagli investimenti passati per trovare nuove opportunità.
Dietro le quinte degli eventi, agisce quella che Karl Polanyi definì l’«Alta Finanza», funzionando come un’organizzazione permanente ed indipendente, legata unicamente alle banche centrali, che sta trasformando il pianeta in un unico centro di produzione e commercializzazione.
È questo il momento in cui il capitalismo assume la sua forma più egemonica e comincia a riorganizzare vaste aree del mondo, con l’ausilio di una «ideologia legittimante» e sostenuta dalla minaccia o dall’uso della forza: ogni ciclo capitalistico ha pertanto dato vita a lunghi periodi di violenza, dal momento che le città e le nazioni al centro del sistema hanno cercato di riorganizzare la periferia per aumentare la redditività del capitale.
La globalizzazione potrebbe apparire oggi come il collasso del capitalismo classico, specie in questo periodo di crisi. Invece, come afferma Samir Amin, la globalizzazione è proprio l’industrializzazione della periferia, uno sviluppo che si è manifestato come parte dello smantellamento della produzione nazionale e della sua ricostruzione in un sistema internazionale integrato di produzione industriale. In sintesi, la produzione industriale cessa di essere nazionale per diventare internazionale. Il capitalismo globale, cambia forma, riorganizzandosi, distruggendo quello nazionale.
Gli agenti principali della globalizzazione sono le grandi aziende multinazionali, che controllano oltre i due terzi del commercio internazionale. Considerata la posta in gioco, non stupisce che la politica sia schiava dell’economia. La smania di stabilità delle grandi aziende è il fattore alla base di gran parte dei processi di riorganizzazione politica oggi in corso nel mondo, ad opera, soprattutto, degli Stati Uniti: aziende con sede in paesi dove la produzione va avanti con un alto grado di stabilità politica ed un basso livello di mobilitazione sindacale sono assai rare, quindi queste condizioni devono essere create in modo artificioso e con la forza, ad opera di uno stato forte, se non autoritario.
La risposta statunitense al caos crescente si è tradotta nel tentativo di creare un impero: ma sia la prima avvisaglia, ovvero l’intervento in Kosovo, sia i successivi interventi in Iraq prima e in Libia poi, con in mezzo la serie di rivoluzioni controllate della “primavera araba”, sono gli ambiziosi tentativi di realizzarlo, che stanno portando ad un aumento del caos.
Caos presente anche all’interno degli stati, dove stanno esplodendo i conflitti tra i nuovi vincitori e i nuovi sconfitti della società. La formazione dei sindacati, la nascita del socialismo e del comunismo, e il trionfo di quest’ultimo in vaste aree di Europa e di Asia, furono risposte all’insostenibile «utopia perversa» del capitalismo industriale nel terzo e quarto ciclo di espansione. Ora, all’ingresso del quinto ciclo, le forze economiche ricreando un’utopia perversa: legare il destino della nostra società a un’organizzazione fondata sull’accumulazione illimitata, un sistema condannato alla crescita, che esternalizza i danni, facendoli ricadere su di noi, sulle generazioni future e soprattutto sulla natura, fornitrice di risorse e secchio della spazzatura, protagonista e vittima del processo produttivo.
Un sistema che sovraproduce e che quindi può durare solo sovracquistando, cioè attraverso l’iperconsumo, indotto dal sistema pubblicitario e dall’obsolescenza accelerata e programmata dei prodotti. Come se fossimo fuori dal tempo e dallo spazio.
All’utopia folle della crescita illimitata, finora non vi è stata alcuna coerente risposta globale: il capitalismo, con i suoi attori/imprenditori dello sviluppo (imprese transnazionali, banchieri, responsabili politici, tecnocrati e mafie), sta per spezzare definitivamente lo stampo dello stato-nazione, generando enormi pressioni per fare a pezzi ogni istituzione umana, tra cui le basi dello stato sociale, ostacolo allo sviluppo del capitalismo globale.
È evidente che il mondo odierno in via di globalizzazione è privo di timoniere, e i suoi leader, che suppongono di avere il controllo degli eventi, sono solo dei re nudi. Wystan Hugh Auden scrisse negli anni Trenta: «Le nostre vite sono determinate da forze esterne che fingiamo di capire». Una frase che riassume la condizione attuale dell’umanità.