Ma il debito è solo questione di spesa?
L’Italia è un grande malato che rischia di contagiare l’intera Europa. Il livello del nostro debito è talmente alto che possiamo essere puniti dai mercati con una recessione di immani proporzioni. Queste frasi ripetute come una sorta di mantra stanno entrando, anzi sono già entrate, nel cervello degli italiani. Paradossalmente il paese che, complice una televisione di regime, aveva creduto di vivere nel fantastico mondo di Novella 2000, improvvisamente si è svegliato impaurito e tremebondo, pronto ad accettare qualsiasi sacrificio, o quasi, pur di uscire vivo dalla “malattia”. Di fronte all’apocalisse chi potrebbe infatti essere tanto folle da non rinunciare a qualcosa per salvare nientemeno che l’Europa se non addirittura il mondo intero? E pazienza se ciò significa per alcuni precarietà a vita e fine di ogni tutela.
Come si è detto alla base di tutta questa catastrofe c’è l’enorme debito italiano. Eppure, a questo punto, una domanda sorge spontanea: perché soltanto da questa estate il mercato si è accorto dei pericoli della nostra economia? E cosa è emerso che non fosse già noto prima?
Per cercare di dare una risposta sensata a queste domande dobbiamo provare a risalire indietro nel tempo, districandoci tra la babele di diagnosi e spiegazioni che si sono succedute nel corso di questi mesi.
Innanzitutto è assodato che l’origine immediata della crisi è iniziata nel 2008 con il fallimento della Leheman Brothers. Per le imperscrutabili, almeno all’apparenza, leggi del mercato, il fallimento di una Banca d’affari americana si è tradotto immediatamente nel rischio fallimento per la Grecia. La crisi di panico internazionale seguita alla presa di coscienza che persino un paese dell’aria Euro può fallire ha determinato l’assalto prima alla Spagna, che è riuscita per il momento ad evitare ulteriori attacchi speculativi grazie alle elezioni anticipate, e poi all’Italia.
Su di noi certamente ha pesato come un macigno anche la lunga lista di capi d’accusa che ci portiamo addosso: paese sprecone dove i clientelismi e le prebende pubbliche sono fuori controllo, inaffidabile e litigioso. Purtroppo questi stereotipi mai come durante l’estate scorsa si sono rivelati veri. Il governo Berlusconi si è prodotto in una serie di manovre correttive improvvisate e raffazzonate, condizionate dalla paura di non muovere nulla pur di non scontentare gli elettori che, almeno nelle speranze dei partiti al governo, avrebbero dovuto essere chiamati a votarli di nuovo nel 2013.
Curiosamente, i capi d’accusa rivolti all’Italia sono identici a quelli rivolti alla Grecia qualche mese prima e la ricetta proposta dagli economisti liberali è stata la stessa: tagliare in maniera massiccia pensioni, stipendi e Welfare in modo da ridurre la spesa pubblica abnorme, unica vera responsabile del disastro internazionale. Ma è davvero così?A questo punto per provare a dare una risposta abbiamo bisogno di un supplemento di analisi e per farlo possiamo utilizzare i dati pubblici, e facilmente reperibili su internet, dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD) e del Fondo Monetario Internazionale (FMI)
Spulciando i dati dell’ OECD (http://www.oecd.org/document) possiamo notare che la spesa procapite per lo Stato Sociale in Grecia è in media di 3.530 euro contro i 6.251 della media europea, la spesa pensionistica incide sul PIL meno che in Germania e in Francia, mentre i costi della macchina statale sono in proporzione molto più bassi di quelli tedeschi. Ma allora se la Grecia non è il paese sprecone dove si va in pensione a 40 anni e lo stato regala soldi a chiunque, da cosa nasce il problema greco? La risposta non è molto complessa. Il paese ellenico a causa della recessione globale ha subito un calo del PIL vertiginoso, con un conseguente calo degli introiti delle tasse. In parole povere il problema della Grecia non sono le spese bensì le entrate.
Veniamo ora all’Italia. Anche in questo caso possiamo sfatare qualche mito servendoci dei dati dell’ IMF e in particolare del Fiscal Monitor, il documento che analizza e compara lo stato della finanza pubblica mondiale in ottica di sostenibilità del debito. (http://www.imf.org/external/pubs/ft/fm/2011/02/pdf/fm1102.pdf) . Ebbene l’Italia è messa male sopratutto su due fronti: il debito pubblico (con 121,1% del PIL, il terzo del mondo) e soprattutto la differenza tra costo del debito e tasso di crescita del PIL (in questo caso siamo addirittura primi). Sorprendentemente il nostro paese è il più virtuoso al mondo proprio sui due settori maggiormente attaccati dagli economisti e principali obiettivi del governo Monti. Il primo settore in cui eccelliamo (siamo terzi dopo Giappone e Francia) è l’equilibrio nel sistema pensionistico mentre siamo addirittura primi al mondo in materia di equilibri nella spesa sanitaria. Ma allora se anche per l’Italia non si possono cercare facili stereotipi per spiegare la crisi, qual è il problema del nostro debito? Anche in questo caso la spiegazione è semplice: l’Italia non cresce da dieci anni, ha un’ evasione fiscale altissima, stimata dal FMI nel 13% del PIL (cioè da 4 a 6 volte maggiore rispetto agli altri 186 paesi membri) a cui va aggiunto circa il 25% della ricchezza nazionale frutto del sommerso. Quindi, un po’ come succede per le famiglie indebitate che possono pagare le rate fin quando hanno un reddito costante ed alto, l’Italia meno crescerà e più si manifesteranno gli effetti devastanti del suo debito. A questo punto le ipotetiche ricette sono due: continuare a ridurre le spese o affrontare il nodo della crescita. La prima strada è certamente molto più facile anche se si corre il rischio di cadere nella cosiddetta “trappola del debitore”: austerità, recessione, caduta della base imponibile e quindi aumento del deficit e nuova austerità ancora più dura fino allo smantellamento definitivo della spesa e al crollo della domanda interna. Parlare di crescita è invece molto più complesso, sopratutto perché la maggior parte degli economisti e dei partiti politici, sia di destra che di sinistra, sono ancora fermi alle analisi e alle ricette di trent’anni fa o non hanno il coraggio di affrontare una strada a tratti ancora inesplorata.