Nuovi Media la gente non è quella che sembra
di Guido Rampoldi
dal Riformista – Le Ragioni del 18-12-2011
Chi studia i nuovi media sta scoprendo con costernazione che la terra promessa della libertà e della trasparenza democratica, internet, è diventata il più avanzato laboratorio della manipolazione. E’ accaduto questo: i più vari gruppi di pressione hanno ingaggiato squadroni di internauti e li hanno dotati di decine di migliaia di false identità; e adesso questi imponenti eserciti di cloni partecipano a forum, producono blog, disseminano commenti, insomma lavorano di gran lena per creare l’impressione che un movimento d’opinione tanto vasto quanto appassionato stia chiedendo a gran voce quella certa politica oppure si mostri deciso a contrastarla; nutra solidarietà, stima, venerazione verso una certa figura pubblica oppure la disprezzi; sia entusiasta del tale prodotto oppure ne abbia un giudizio pessimo. La velocità con cui questa tecnica si diffonde è sorprendente: “Ogni mese che passa – scrive il Guardian – diventa più evidente che newsgroups e forum vengono sequestrati da gente che non è quello che sembra”. Potrebbe essere il motto dell’epoca nuova: la gente non è più quello che sembra. I cyber-impostori dimostrano che si può simulare società civile, anzi una società civile più vivace e appassionata dell’originale. Se questo è vero, allora è possibile costruire un simulacro di opinione pubblica ‘impegnata’ e usarlo per attrarre elettori intorno ad un progetto, ad una candidatura. Secondo un’opinione diffusissima tra i seguaci di Obama, il Tea party nacque da un’operazione di questo tipo. Ma a leggere in filigrana certi eventi nostrani, è verosimile che anche in Paesi meno avanzati come l’Italia si stia aprendo vaste praterie ad una più artigianale tecnopolitica. Il film che un giorno racconterà tutto questo, probabilmente avrà un titolo più adatto ad una farsa che ad un dramma: Astroturfing. La parola deriva da Astroturf, un’erba artificiale usata negli impianti sportivi. Poiché gli americani considerano le radici dell’erba sinonimo di ciò che chiamiamo ‘società civile’, astroturfing sta per “creare falsamente l’impressione di un sostegno popolare e spontaneo… a un’idea/ prodotto/ industria/ servizio” (così l’Institute of Public Relations, contrario a questa pratica). All’inizio l’astroturfing fu utilizzato dalle compagnie del petrolio e del tabacco per contrastare progetti di legge sgraditi: ma i mezzi erano modesti. Ancora vent’anni fa ci si affidava a stuoli di dattilografe che tempestavano di lettere giornali e politici, a centralini costituiti per raggiungere i parlamentari che si intendeva spronare o spaventare.
Poi la moltiplicazione delle reti televisive e internet hanno permesso all’astroturfing di invadere tutti i campi della comunicazione e di realizzare interventi massicci con tecnologie ad hoc (boiler-rooms, psycographics, un arsenale di software per variare identità, voci e messaggi ed evitare che sia smascherata l’origine unica). La committenza dei gruppi di pressione specializzati in astroturfing oggi comprenderebbe i maggiori gruppi industriali del pianeta, Stati, comitati elettorali di candidati Repubblicani o Democratici. La Cina avrebbe ingaggiato decine di migliaia di studenti per mimare in internet il plauso popolare alle scelte del vertice e per contrastare le critiche straniere alla politica di Pechino sulle questioni più scottanti, quali il Tibet. L’orizzonte di questa frenesia manipolatoria lo anticipa la compagnia petrolifera americana RRC: per difendere un sistema di estrazione contestato da gruppi ambientalisti, ha ingaggiato ex agenti dei servizi segreti Usa impiegati in Medio Oriente nelle PsyOps, quelle opache ‘Operazioni psicologiche’ con le quali si intende conquistare i cuori e le menti della popolazione. La saldatura tra astroturfing e metodi per gran parte definibili come disinformazione è quasi un destino, considerando le forti analogie tra le due pratiche. Entrambe mirano a cambiare una percezione collettiva restando invisibili; e per restare invisibili entrambe devono costruire un gioco di specchi nel quale sia quasi impossibile risalire all’origine. Questa potrebbe essere anche la storia del Tea party. Nancy Pelosi, presidente del Congresso, ha definito il Tea party “un astroturf, non un movimento spontaneo” e i Democratici ne hanno attribuito la nascita all’intervento combinato di Fox news, la tv di Murdoch, e di due pensatoi della destra, uno dei quali, Freedom works, coincide con una società di lobbyng. Decisiva fu soprattutto Fox-news: lanciò il Tea party quando era ancora minuscolo, e soprattutto gli fornì il tema vincente, l’opposizione tra ‘loro, i vecchi politicanti’ (Obama, i Democratici, ma anche parte del vertice Repubblicano) e ‘noi, i cittadini impegnati e disinteressati’ (cioè gli affezionati spettatori di Fox-news e coloro che Fox-news decide siano i nuovi campioni della destra). Grossomodo questa è la narrativa su cui poggia ogni populismo, però con una differenza sostanziale: in questo caso la narrativa è certificata. Ad autenticarlo è la tv che un vasto settore della destra americana considera la voce più sincera dell’America ‘vera’. Anche Berlusconi si giovò della fabula ‘cittadini/politicanti’ certificata dai media, i suoi, talvolta con metodi molto astroturfing (celebri le interviste ai passanti, dai quali risulta sempre che il popolo è con Lui). Ma questo è ampiamente noto. La novità è che oggi anche la gran parte dei media non berlusconiani e anti-berlusconiani sembra sedotto dallo schema della tecnopolitica populista, così interpreato: di là i politici, intesi in blocco come burocrazia partitica, privilegio, intrallazzo, il vecchio che muore; di qua il nuovo che avanza, i rottamatori, i giovani, le idee fresche, e i media che promuovono il ricambio e lo orientano. Un nuovo che avanza è Matteo Renzi, rottamatore, incitato all’azione da quasi tutta la stampa, anche quella che lo tiene in sospetto, con un’intensità proporzionale allo spazio (enorme) ottenuto dal suo recente convegno fiorentino. Più spesso i nuovi in avanzamento, certificati come tali dallo spazio o dal lustro offerto dai media amici, provengono dalla finanza e dall’industria; e tutti si presentano e sono presentati come l’espressione di quella società civile che vuole liberarci della Casta. Se poi restassero dubbi ecco i sondaggi commissionati da tv e giornali, dove gli homines novi di solito risultano acclamati dalla gente, dunque espressione di società civile. Si potrebbe obiettare che la gran parte di queste ricerche demoscopiche lasciano il tempo che trovano, in quanto i media pagano poco, e quel poco non basta a garantire un risultato attendibile. E si potrebbe perfino sospettare che un sondaggista pronto a vendere fumo sia anche disponibile a costruire le domande in modo che le risposte soddisfino le attese della committenza. Ma non è questo il punto. Il punto è che in Italia è fallita non una classe politica, ma una classe dirigente. Cultura del favore, relativismo etico, inettitudine, disonestà intellettuale, arretratezza, tutto questo è largamente diffuso anche tra gli imprenditori, le nomenklature giornalistiche, le caste togate, i banchieri, gli apparati dello Stato… E all’inverso, anche tra i politici, come tra gli industriali o i giornalisti o i magistrati o i poliziotti, c’è ancora una riserva strategica di intelligenza, di onestà, di passione civile, sufficiente a riformare il sistema dei partiti, e non solo quello. Tutto questo è perfino ovvio. Meno ovvia è la condizione di debolezza in cui ormai versa la politica ‘sana’. Delegittimata da una vulgata dilagante e messa in mora dalla figura dell’esperto, è sempre più dipendente dai media teoricamente ‘amici’. Quindici anni fa Felipe Gonzalez, sconfitto ed estromesso dal governo si blindò piazzando otto suoi uomini nel vertice del gruppo editoriale di riferimento. Come insegna l’Italia, oggi è più facile che sia il gruppo editoriale a piazzare i suoi prediletti nel vertice del partito di riferimento. Sono mutati i rapporti di forza. Lo ha dimostrato Fox-news cambiando la fisionomia del Partito Repubblicano: i media possono esercitare un’influenza enorme sull’area politica cui si rivolgono, se dispongono di un pubblico vasto e ben ‘fideizzato’. E poiché di solito rappresentano interessi forti (e non dichiarati), potrebbero essere tentati di proporre ai partiti ‘scambi di favori’: ma questo sarebbe il meno. Il pericolo maggiore, già evidente, è che siano i grandi media a decidere forme e contenuti del dibattito politico. Quali siano le opinioni ammesse e quali no, se sia opportuno o inopportuno discutere il tale argomento, chi abbia diritto di parola. Non necessariamente questo obbligherà la sinistra riformista a consegnarsi alla sinistra padronale e il liberalismo non ciecamente liberista a diventare lo stuoino della grande industria. Ma di sicuro rafforzerà il cardine di una classe dirigente che invece andrebbe scardinata, la struttura primaria di potere italiano, che ovviamente non è la Casta ma l’ubiqua, trasversale Consorteria. E agevolerà il discorso populista, che rifiutando profondità e coerenza, si trova perfettamente a suo agio con i format praticati dalle tv italiane, a cominciare dal talk-show. Così forse è il caso di farsi qualche domanda. Senza sognare complotti ma senza dimenticare il motto dell’era del camuffamento e dell’erba verdissima, però di plastica: la gente (talvolta) non è quella che sembra.