Perché Israele continuerà a bombardare Gaza
Sono passati neanche quattro anni dall’operazione “piombo fuso” e Gaza brucia esattamente come allora. Una tragedia che si ripropone da decenni in maniera ciclica di fronte alla quale tutti sembrano impotenti. Sembrano impotenti gli Usa che con sempre maggior fatica riescono a svolgere il ruolo di mediatore per assicurare una soluzione equa e durevole al conflitto israelo – palestinese. Sembra totalmente assente l’Unione Europea la cui mancanza di una comune politica estera si traduce in generici appelli fatti più per forma che per altro.
Dopo tutti i fallimenti diplomatici degli ultimi anni è chiaro che l’ultima parola sulla pace in Medio oriente spetterà solo e soltanto ad Israele e alle sua classe politica. E questo è forse su tutti il problema più grande. Mai come oggi, infatti, lo stato ebraico è amministrato da una classe politica vecchia, senza idee e totalmente inadeguata sotto ogni profilo per condurre una qualsiasi trattativa di pace.
I tempi di Rabin sono orami preistoria e gli stessi partiti laici di sinistra hanno smesso da anni di fare opposizione, schiacciati dall’ossessione di cercare a tutti i costi la via dei governi di unità nazionale. In questo sconcertante quadro di vuoto politico, la società israeliana è attraversata da un livello di scontro sociale che non ha nessun precedente nella storia del paese. Dal luglio scorso infatti più di 100.000 persone sono scese nelle principali piazze israeliane per protestare contro le condizioni economiche sempre più inaccettabili e insostenibili per la maggior parte della popolazione, per una maggiore giustizia sociale e per l’abolizione della leva obbligatoria.
Questo movimento spontaneo, simile per modalità a quello degli indignados spagnoli, inizialmente composto quasi esclusivamente da giovani, ha in breve tempo raccolto sempre più adesioni tanto da essere ormai divenuto trasversale e forte nei sondaggi anche se ancora non ben definibile politicamente.
Sotto la pressione dell’opinione pubblica e nell’impossibilità di trovare un accordo sulle pesanti misure di austerità da approvare, nel mese di novembre il governo ha annunciato le elezioni anticipate a gennaio che avverranno quindi in un clima di incertezza crescente.
Così, come è già avvenuto più volte nella storia di Israele, il premier Benjamin Netanyahu, uno dei politici più potenti e senza scrupoli del mondo, ha deciso di fare diventare il tema della sicurezza nazionale l’unico argomento della campagna elettorale. Spostando l’attenzione dai fallimenti economici alla sindrome di accerchiamento, l’attuale capo del governo e i suoi fidi collaboratori, che è bene ricordarlo sono tra i militari più decorati della storia del paese, avranno grosse chance di spegnere sul nascere qualsiasi movimento alternativo, spingendo gli indecisi a dare fiducia ancora una volta a chi è maggiormente in grado di assicurare l’unità e la salvezza del paese.
Inutile dire che la tregua siglata in questi giorni è al dir poco labile. Se infatti l’opzione di terra è sempre stata altamente improbabile (troppo rischiosa in chiave elettorale), quasi sicuramente nei prossimi mesi continueranno i raid mirati dell’aviazione israeliana contro capi di Hamas e siti strategici. I palestinesi, supportati e incoraggiati dall’Iran, ovviamente risponderanno con il lancio di altri missili a cui seguiranno nuovi bombardamenti israeliani e così all’infinito.
Questa volta però la rielezione di Netanyahu, e specularmente il rafforzamento del potere di Hamas a scapito della laica Al – Fatah, rischia di far pagare un prezzo molto alto ad Israele, al Medio Oriente e persino a tutto l’Occidente.
Le immagini dei bambini dilaniati dai bombardamenti e l’incredibile sproporzione tra le forze in campo possono compromettere definitivamente la credibilità della comunità internazionale. Come potrà infatti l’Occidente giustificare sanzioni o addirittura un intervento armato in Siria se tollera senza batter ciglio la strage degli innocenti a Gaza? Certo fino ad ora tutto ciò non ha rappresentato un problema, ma dopo la Primavera araba le mobilitazioni di massa in tutto il Medio Oriente dimostrano che le nuove leadership dovranno sempre di più tenere in considerazione la volontà popolare. L’Egitto di Morsi non potrà mai essere supino ai dettami di Washington come lo era ai tempi di Mubarak, così come la Turchia di Erdogan che del resto ha quasi del tutto abbandonato il sogno di entrare in Europa. In Siria chiunque vincerà la guerra civile non si presenterà certo come amico di Israele e persino in Giordania serpeggia un fortissimo malcontento. Il rischio concreto è che nei prossimi anni, nonostante le enormi differenze politiche e sociali, l’opinione pubblica di tutti i paesi del Medio Oriente si potrà ricompattare su tre punti: la sfiducia nei confronti dell’ONU, il non riconoscere più agli Stati Uniti il ruolo di leader democratico mondiale e l’odio nei confronti di Israele.
Nel gennaio 2013 Netanyahu sarà con ogni probabilità rieletto, ma quello che guiderà sarà un paese sempre più isolato e indebolito destinato a non molte altre scelte se non quella di vivere in una guerra permanente contro tutto e tutti.