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27 Apr 2013

Piove sulla favola (bella?) che ieri ci illuse, che oggi ci illude

C’è una favola che è giunta al finale. E non è detto che sia un happy ending.

Chi l’ha raccontata? Un po’ tutti. Dal 1993 ad oggi l’hanno narrata politici, giornali, radio, televisione, opinion leader, studiosi, ma anche la gente comune.

In una ipnotica credenza di massa ce ne siamo fidati  senza dubitare, ingenuamente, come i bambini.

Ma prima o poi tutte le fiabe, come i sogni, all’alba svaniscono perché la luna li porta con sé. E vent’anni sono una durata “record” prima di scoprire che la realtà fosse un’altra. Il titolo della favola? Era suggestivo: “La Seconda Repubblica”.

Ci faceva inorgoglire davanti a quegli snob dei cugini francesi, che dopo aver addirittura dato il nome alla Rivoluzione del 1789, erano già arrivati ad annoverare una Quinta Repubblica.

Noi italiani, invece, ne avevamo una sola. Certo, potevamo vantare la Repubblica della Roma antica, quella del SPQR, dei consoli, dei tribuni della plebe, ma poi era finita nella dittatura di Giulio Cesare e fra il 36 avanti Cristo e il 1946 ne era corsa d’acqua sotto i ponti per invocare una continuità anche solo di numerazione. Né l’esperienza preunitaria di Mazzini, Armellini e Saffi in un’altra Repubblica, quella Romana, costituiva un fenomeno estensibile a tutt’Italia per calcolare un ulteriore precedente in grado di arricchire il carnet delle Repubbliche Italiane.

Tutte le favole che si rispettino si fondano su una bugia, su una manipolazione della realtà, capovolgono i fatti. Nel contempo rispondono a un desiderio di diversificare la realtà.

In Italia nei primi anni ’90 la stanca senescenza della Democrazia Cristiana, la pachidermica crisi d’identità del PCI e la mutazione genetica dei quadri del PSI non seppero interpretare le trasformazioni di una società colpita dalla crisi valutaria, dagli scandali tangentizi e dall’attacco scomposto e violento della mafia che uccise Falcone e Borsellino.

Così si incubò in maniera, per così dire, autoterapeutica il bisogno di favola.

La Prima Repubblica Italiana aveva 47 anni, era una signora di mezza età. Di lei già molti anni prima qualcuno avrebbe potuto pensare quel che scrivevano nel 1968 i militanti dell’opposizione sui manifesti celebrativi di una verginale fanciulla, dove accanto allo slogan ufficiale “La Dc ha vent’anni…”, campeggiava la scritta a penna “…ed è già così puttana”.

20 anniNondimeno, essendo ormai in vigore dal ’58 la legge Merlin, si preferì mandare in pensione o – se si preferisce – in cassa integrazione la signora di mezza età, per aprire la carriera alla pretendente al trono “Seconda Repubblica”, figlia illegittima della Prima perché nata dal menage a troi (adulterato più che adulterino) dei residuati comunisti e democristiani con il subdolo leghismo e lo strisciante giustizialismo.

E germogliarono i fiori ingannatori di una falsa primavera che generò frutti avvelenati. Frutti che venivano chiamati con nomi affascinanti perché stranieri, ma che coprivano vecchie idee malsane: la secessione razzista si fece appellare devolution federalista, la precarizzazione del lavoro si ribattezzò flexibility, la legge della giungla venne appellata competitivity. Persino lo Stato Sociale, per essere smantellato più facilmente, cambiò nome e scomparvero i ministeri del lavoro e della sanità per diventare del welfare. Nell’ubriacatura esterofila, federalista, neoliberista tutti si riempirono la bocca di antistatalismo, di liberalizzazioni, di federalismo e altre parole d’ordine del nulla, in mezzo alle quali veniva schiacciato l’orco cattivo (in tutte le favole c’è l’orco) del “primato della politica”. Intanto, in un contesto mondiale recessivo dominato dalle paure americane del terrorismo islamico  e dall’avanzata sregolata dei Paesi del BRIC, vinceva  il primato del mercato, delle banche, della grande distribuzione, delle assicurazioni per poi scoprire troppo tardi, quando la crisi dei subprime e dei titoli tossici ci aveva già massacrato, che la politica doveva riappropriarsi della funzione di indirizzare a fini sociali l’economia.

Ma la bugia principale sulla quale si fondava la favola della Seconda Repubblica era nascosta in un animale strano che nel ventennio subì una metamorfosi peggiorativa e letale. Si passò, nel mezzo del cammino, da una banale opera incompiuta all’arroccamento del potere su se stesso. L’animale menzognero che aveva fatto credere alla nascita di una nuova organizzazione statale era la legge elettorale.  Dapprima il Mattarellum avallò l’equivoco che un trapianto allologo di un sistema maggioritario addolcito dal listino non fosse soggetto a crisi di rigetto, poi il Porcellum fece credere al mito della stabilità delle maggioranze di governo.

Il punto chiave è che una Seconda Repubblica sarebbe nata solo con riforme costituzionali vere, che avessero, per ipotesi, modificato la forma parlamentare in presidenziale o semi-presidenziale, che avessero trasformato il modello regionale in federale, che avessero ridisegnato la macchina dello Stato. E invece è venuta a galla la deriva del dissenso qualunquista che ha portato in Parlamento un nutrito esercito di apprendisti stregoni guidati da comico che non fa più ridere.

Oggi a distanza di due decenni dalle invenzioni referendarie, le quali reclamarono a gran voce una legge elettorale che garantisse al vincitore di formare il suo governo il giorno successivo al voto, abbiamo vissuto lo stallo del dopo 25 febbraio che si sta risolvendo solo al sessantesimo giorno con il Governo di Enrico Letta.

 governo Enrico LettaUn Governo di coalizione che troverà la fiducia in Parlamento sulla base di accordi diversi da quelli professati in campagna elettorale. Esattamente come avveniva nella prima Repubblica quando si arrivò ai governi pentapartitici e addirittura alla solidarietà nazionale con alleati fra loro i grandi e piccoli partiti che si erano rudemente contrapposti fino a quel momento.

È calato il sipario su una favola, che ormai fa acqua da tutte le parti.

Piove sulla favola (bella?) che ieri ci illuse, che oggi ci illude.

Ci illude ancora perché si continua a pensare  che si potrà cambiare, modificando di nuovo  (come pure sarebbe moralmente doveroso) questa legge elettorale.

Ma le istituzioni vanno ritoccate molto più a fondo: occorre rivedere il bicameralismo perfetto, accorpare sul serio le province (inutili), riscrivere l’art. 117 della Costituzione rinnegando il papocchio della competenza legislativa concorrente, abrogare la devolution, formare nuove macro-regioni, sciogliere i nodi della cessione di sovranità agli organismi sovranazionali rivalutando la potestà popolare, rinegoziare il fiscal compact e il pareggio di bilancio costituzionalizzato.

Un programma ambizioso, ma l’unico possibile per tornare ad essere fra i Grandi, sempre che si apra la prateria di una moderna politica socialista la quale in concreto, nell’alleanza fra le forze produttive, affermi i principi di eguaglianza e libertà, tuteli il lavoro nelle sue multiformi espressioni, rilanci il discorso della soddisfazione dei bisogni e del premio dei meriti, proclami la centralità della persona umana rispetto al mercato, difenda la cultura quale bene primario e irrinunciabile e lotti per diminuire la distanza fra i ceti affluenti e le fasce deboli della società.

Tutto sta a vedere se le larghe intese che accompagnano la nascita del Letta Primo saranno foriere di un Governo Balneare, come si diceva una volta, oppure se dopo questa primavera spunterà un’estate che – come cantava Mina – porterà via con sè tutto il meglio delle favole.

Scritto da

Dino Falconio

- Socialista, cattolico, scrittore, notaio in Napoli, giornalista pubblicista, Presidente del Comitato Notarile della Regione Campania, docente all’Università Federico II (Scuola di Specializzazione delle Professioni Legali), Presidente della ONLUS Energia del Sorriso, Vicepresidente dell'A.S.J.A. Pontano (sezione napoletana dell'associazione ex alunni dei Padri Gesuiti), Consigliere Segretario del Circolo Canottieri Napoli, fondatore del movimento metropolitano FareRete.