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18 Mar 2014

Svizzera, l’UE blocca gli Erasmus

L’uomo che trova dolce la sua terra non è che un tenero principiante;
colui per il quale ogni terra è come la propria è già un uomo forte;
ma solo è perfetto colui per il quale tutto il mondo non è che un Paese straniero.
 Ugo Di San Vittore

Erasmus Svizzera

Molte sono le posizioni che emergono in queste ore a proposito della vicenda UE – Svizzera. In seguito alla decisione presa per via referendaria dai cittadini elvetici di porre un tetto massimo agli immigrati (nel cui numero vengono compresi anche i molti italiani “frontalieri”) occupabili nel proprio territorio, l’ Unione europea ha deciso di modificare – e sostanzialmente sospendere – gli accordi inerenti il programma Erasmus con quel paese.

Colpire la mobilità studentesca con spirito di rappresaglia non é il migliore dei modi coi quali l’ Europa avrebbe potuto iniziare ad affrontare la questione (non fosse che per il proposito sempre difficile da mantenere del non porsi al medesimo livello di coloro che si crede siano in torto), e trovo che la vicenda abbia un che di paradigmatico che merita una breve considerazione di carattere strutturale.

L’ Erasmus non nasce nel 1987 ma in un certo senso c’ é sempre stato. Gli intellettuali di tutte le epoche hanno sentito l’esigenza di viaggiare per migliorare il proprio percorso culturale attraverso l’arricchimento di quello umano biografico; il concreto atto di partire che comporta quello più metaforico del portar con sé un bagaglio di conoscenze e competenze e il tornare con diverse prospettive e forse più dubbi che risposte,  era considerato imprescindibile per impreziosire il proprio curriculum di studi. Nel medioevo professori scozzesi insegnavano a Parigi e in età moderna poeti e filosofi viaggiavano alla scoperta dei siti archeologici italiani perché senza aver effettuato il “Grand tour” sarebbero stati considerati intellettuali a metà.

La Svizzera é sempre stata in Europa “con un piede sì e uno no, e pure ci piace pensare che le radici culturali siano più potenti dei trattati e dunque che essa vi rientri a pieno titolo. Non vi sono solo ragioni ideologiche per ritenerlo: la supponenza di chi vota per respingere gli immigrati senza rendersi conto che l’ autarchia é utopia per un paese la cui economia dipende per il 78% delle importazioni ed il 57% delle esportazioni da scambi comunitari, ci dà la misura di quanto posizioni xenofobe e populiste siano ormai considerate alla stregua del buon senso.

Il provvedimento dell’ Unione Europea in risposta al referendum, di primo acchito può sollevare un comprensibile apprezzamento per la dovuta punizione, eppure va proprio ad intaccare quello su cui l’ Europa dei popoli si andrà a basare nei prossimi anni, cioè la “generazione erasmus”. Non perché basti questo genere di esperienza per formare un senso di cittadinanza comunitaria, ma perché per far sì che sui populismi di destra e sulla paura del diverso prevalga la voglia di arricchimento nella diversità, il modo migliore é l’ incentivazione di quegli scambi fra studiosi che già resero l’ Europa unita nelle grandi temperie culturali del passato, dal Rinascimento al Romanticismo, fino alle grandi scoperte scientifiche possibili grazie alla collaborazione fra scienziati di paesi diversi.

Con una sostanziale differenza rispetto al passato: assicurare che chiunque lo desideri abbia la possibilità di essere annoverato in quella categoria di “studiosi viaggiatori”. La sfida implicita nella costruzione di un senso comunitario é l’ assicurare il diritto di “libera circolazione” così chiaramente espresso su carta, a tutti e non solo agli aristocratici come già in una certa misura avveniva fin dall’ età moderna. Ottenere questo é compito delle forze progressiste dentro le istituzioni (il PSE in prima linea) e fuori, capillarmente, in ogni paese, per restituire a cittadini diffidenti e smarriti una narrazione diversa di cosa vuol dire convivere e collaborare in un orizzonte europeo; partendo innanzitutto da coloro che abitano paesi che credono di “farcela da soli”;

Ponendo l’ accento sul fatto che chiudendo le proprie frontiere si rischia di perdere una delle poche cose per le quali valga veramente la pena lottare: l’ eterogeneità culturale del cosmopolitismo, incubatrice di tutti i grandi ideali della civiltà occidentale. Senza la concretizzazione di questo pur ambizioso obiettivo, avremo sempre un’ Europa mutilata nelle sue migliori speranze.

Scritto da

Rosa Fioravante

- Classe '89, laureata in Filosofia, è attualmente rappresentante degli studenti di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano. E' membro dell'esecutivo della RUN (Rete Universitaria Nazionale) con delega all'internazionalizzazione,