Un paese sull’orlo di una crisi di nervi
Un paese spaventato, ansioso e pessimista.
Sono questi i tre aggettivi che più di tutti riassumono lo stato d’animo degli italiani in questo travagliato inizio di 2013. Infatti, secondo il rapporto Italia 2013 dell’Eurispes, il 52,8% degli italiani crede che la situazione economica subirà un peggioramento nei prossimi 12 mesi, il 27,9% è sicuro che rimarrà stabile e solo 1 su 10 ha fiducia nel futuro. Certo non è la prima volta che gli italiani vedono nero, ma quello che più preoccupa oggi è l’emergere sempre più forte di una paura diffusa, indistinta, accompagnata dalla sensazione di essere in balia degli eventi. Il futuro è visto carico di imprevedibili minacce che rischiano di insidiare la propria posizione sociale, senza che si possa fare niente per porre un argine. Dal dopoguerra in poi la società italiana è sempre stata caratterizzata dalla certezza granitica che poco alla volta la propria condizione di vita sarebbe migliorata sempre di più. Tutti gli italiani, indipendentemente dall’età o dallo stato sociale, si proiettavano avanti con fiducia nella gerarchia sociale, determinati a migliorare le proprie condizioni di vita e quelle dei propri figli. Gli operai sognavano il “figlio dottore”, gli artigiani ambivano a farsi imprenditori, gli impiegati cercavano di far carriera nella propria azienda. Tutti guardavano avanti, in marcia verso un futuro migliore, proiettati in una corsa per raggiungere chi stava davanti.
Oggi questa percezione è completamente cambiata. I padri e le madri non sanno orientarsi, e quindi neanche orientare i propri figli, in un mondo economico e professionale fortemente mutato, mentre le giovani generazioni si sentono talmente paralizzate dalla paura da non riuscire in molti casi neanche a reagire più.
Ci troviamo di fronte insomma a quella che Zygmunt Baumann chiama la “paura derivata”, ovvero quello stato d’animo caratterizzato dall’ ipersensibilità al pericolo, da un senso di insicurezza perenne e dalla vulnerabilità agli eventi. Secondo il sociologo polacco, questa, tra tutte le paure, è la più pericolosa perché determina una paralisi d’azione. Di fronte all’impossibilità di sfuggire ai pericoli e persino di identificarli, l’uomo, per sua natura, è portato a non agire, a trovare un conforto in un dolce oblio. Ma se da un punto di vista individuale tale atteggiamento conduce a cercare un rifugio in un luogo sicuro e al riparo dai pericoli (la casa, gli affetti e la famiglia), dal punto di vista sociale e politico quasi sempre si traduce in un’esplosione di rabbia totale, non canalizzata e dagli esiti imprevedibili. Impropriamente molti hanno accostato questo sentimento alla formazione delle grandi ideologie del passato, dal fascismo al comunismo, passando per il Sessantotto. La differenza sostanziale è che allora tutti coloro che volevano cambiare lo status quo, compreso quelli che non disdegnavano la violenza, lo facevano perché erano convinti, a torto o a ragione, che un futuro luminoso sarebbe sorto dalla macerie del vecchio. Sentivano, per citare la bellissima poesia “Oltre il Ponte” di Italo Calvino, di avere a portata di mano “l’avvenire di un giorno più umano e più giusto, più libero e lieto”.
Erano guidati da un’ideologia, da un sogno, persino da un’utopia.
Quando invece la lotta contro l’esistente è stata caratterizzata da una rabbia senza utopia, nutrita dall’ idea che qualsiasi cosa sia meglio del presente, storicamente si è sempre creato l’humus ideale su cui hanno attecchito le dittature e, più in generale, l’avvento di un solo uomo al comando. Dittature che sono nate proprio dalla tendenza ad affidarsi a ricette altrui, soprattutto se sono semplici da comprendere e affermate in maniera sicura e senza esitazioni, per risolvere il proprio malessere. E poco importa che queste ricette non abbiano nessuna prospettiva di lungo respiro, che prevedano la rinuncia alla propria libertà, che rischiano di fare cadere un paese intero dalla padella alla brace.
L’importante è essere liberati dall’ ossessione della paura.